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giovedì 28 dicembre 2023

Febo della Minerva: Il padre partì per Messina il 29 dicembre a bordo della Stura... Tratto da: Il pazzo che piacque a Dio. Biografia di padre Giovanni Messina

Il quadro apocalittico presentatoci dal Papasogli fu visto qualche giorno dopo dallo stesso padre Messina che fu sul posto appena avuta notizia del disastro.
Partì il 29 dicembre a bordo della Stura assieme a 1200 soldati. Arrivarono a Messina di notte, e misero piede a terra solamente alle ore 10 del giorno appresso.
“Che orrore!...” scrive il Padre. “Tutta la città è rasa al suolo... i pochi fabbricati che restano, è meglio demolirli e si dirà un giorno: Messina fu.
Dopo tre giorni di lavoro sia per il salvataggio, sia per la pietosa opera di Religione, assolvendo mentre si moriva da centinaia di persone, abbiamo raccolte due povere orfanelle a nome Antonina Mondello di anni 7 e Santina Mondello di anni 3, per essere ricoverate nella Casa Lavoro e Preghiera di Palermo. È superfluo dire che tutto mancava, e un po’ di minestra, fagiuoli e gallette ci toccarono a bordo della Stura dove, nientemeno, si riuniva il Comitato e Comando Generale per il disastro; cioè il Maggiore Generale Mazza Trinchieri Prefetto di Messina e tutto lo Stato Maggiore.
Avuto il Comando i militari il disordine fu al completo, appunto per le infinite burocrazie del corpo tanto che i soldati che arrivavano, per la mancanza del trasbordo, restavano sui piroscafi, lasciando la città intera in preda ai ladri.
Se non fosse stato, almeno nei primi giorni, per l’opera ammirevole dei Russi e degli Inglesi, gli stessi feriti che si sono spediti a Napoli, Palermo, Catania non sarebbero arrivati e avremmo potuto avere una completa e vera ecatombe generale.
Di chi la colpa? Di nessuno perchè nessuno poteva e sapeva comandare, e se si voleva comandare, si complicava maggiormente la matassa, e nessuno poteva sapere se esistesse autorità.
Il Comando a mare. I predoni a terra. Le comunicazioni tra mare e terra ridotte a una misera lancia a vapore e due barchette.
I soldati a bordo. I viveri che non bastavano per la sola truppa che si mandava senza indirizzo pratico e tecnico.
Nessun ordegno o barella pei feriti – tutto dice che l’anarchia fu al colmo, e che se il disastro fu immane, sarà detto favoloso nella storia per la mancata assoluta previggenza. Il guaio è accresciuto dalla certezza che in Italia non si può nè si sa provvedere a qualsiasi specie di disastro nazionale. Un povero spettatore Padre Messina”.
La confusione della descrizione, chiaramente dice le forti impressioni e le profonde emozioni del giovane Apostolo trovatosi, ancora una volta, dopo il 1905, in mezzo alle macerie, alla ricerca di corpi ed anime da salvare.
Dalle macerie arrossate di sangue, giungevano strazianti grida invocanti aiuto, gemiti soffocati dalle rovine, lacrime inconsolabili nei superstiti impazziti dal dolore e dall’orrore.
Il padre Messina quasi non credendo ai suoi occhi, e alla stessa realtà che lo circonda, si aggira tra le macerie come un fantasma.
Dietro un muro diroccato, una scena pietosa: due bambine, sole, inconsolabili, tremanti per il freddo e per la fame, invocano senza stancarsi: Mamma!... Mamma!... Mamma!... Due cuoricini, atterriti, che stanno per scoppiare. Il Padre ode: vede.
Protende le mani grosse, incallite verso quelle due nascenti esistenze in prova; si china fino a quel disperato dolore d’angeli in pena.
Con un nodo alla gola che gli impedisce la parola, riesce a balbettare: Coraggio, figlie mie, qui c’è Mamma.
Le bimbe forse non capirono le parole, forse non le udirono ma videro un volto umano chinarsi fino alle loro gote bagnate di lacrime e arrossate dal freddo, e mentre l’una si attaccava fortemente alla veste del salvatore, l’altra stringeva con le braccine sudice il collo dell’uomo vestito di nero, con la forza disperata della vita che non vuol perire.
Le lacrime poco a poco cessarono; i singhiozzi si fecero più rari; poi s’addormentò tranquilla.
Non furono i soli incontri col dolore e la sventura.
A Messina non fu meno eroico nè meno generoso nel sacrificio di quanto lo fosse stato nelle Calabrie.
E a Palermo le sue Figlie fecero la loro parte con i feriti giunti da Messina. Il cronista della Casa, annota il 31 dicembre 1908:
“Gli ospedali e le Scuole di Palermo rigurgitano di feriti provenienti da Messina. Le Pie Madri si danno il turno nell’assistenza dei feriti”.
A quel giovane Prete dal volto duro e abbronzato di pescatore, dal portamento poco signorile, dalle maniere affatto ricercate, proprio a questo Prete, Dio ha detto cosa vuole da lui: essere Padre all’orfano e all’abbandonato.
Calabria e Messina: due immani disastri: due parole di Dio. Due parole chiare per padre Giovanni Messina.
Tornò a Palermo portando con sè dieci bambine sottratte alla morte, rimaste prive della luce e del calore del cuore materno. 
Dove le metterà?
Non chiedetelo. Camminerà di più ogni giorno; salirà più scale, importunerà più negozianti; cercherà ancora pietre, calce, cemento e affini e ingrandirà le sue Case. Quelle bambine non resteranno incustodite e tanto meno mal custodite.
Egli sa che Amore più Amore meno matematica dà per somma: DIO. O, se meglio piace: PROVVIDENZA.


Febo della Minerva: Il pazzo che piacque a Dio. Biografia di padre Giovanni Messina.
Pagine 384 - Prezzo di copertina € 22,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita Centro Commerciale Conca d'Oro), Libreria Nike (Via Marchese Ugo 56), Libreria Macajone (Via M.se di Villabianca 102), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Libreria Forense (Via Macqueda 185), La Nuova Bancarella (Via Cavour).

Febo della Minerva: L'abnegazione della regina Elena a Messina. Tratto da: Il pazzo che piacque a Dio. Biografia di padre Giovanni Messina

Mentre Vittorio Emanuele s’internava tra le spaventose fosse di macerie, insieme con le squadre di soccorso e disseppellimento, Elena fece suo quartiere generale la corazzata Regina Elena, e lì organizzò mirabilmente il servizio ai feriti: soprattutto, si prodigò ella stessa in quelle cure con una generosità veramente straordinaria: non conobbe stanchezza, non conobbe riguardi per la propria persona. Spontaneamente disposta ad accudire gli infermi, e preparata da vari studi fatti in Russia, riuscì mirabilmente ad alleviare sofferenze e medicare ferite, tanto da destare una ammirazione indiscussa, generale.
Un testimone oculare, Angelo Cairoli, interrogato il 10 gennaio 1909, raccontò:
“Vestiva un semplice abito scuro; portava un berretto alla marinara, nessuno l’avrebbe presa per la regina d’Italia. Sembrava un’infermiera, una suora di carità: il suo volto pallido e contratto dal dolore e dalla pietà si atteggiava a un dolce sorriso per confortare le centinaia di feriti ai quali volle con le sue mani prodigare le prime cure. I suoi occhi erano pieni di lacrime, nella sua voce era un singhiozzo.
Nessuna sovrana ha fatto mai quello che la Regina Elena ha saputo compiere nelle tragiche giornate di Messina...”
Mentre si raccoglievano e curavano i feriti, si veniva a conoscenza di un numero sempre crescente di sepolti vivi: si scoprivano le loro voci senza avere la più lontana possibilità di scoprire i loro corpi. Molte case erano, infatti, crollate verso l’interno, come per uno sfondamento centrale che avesse fatto confluire mostruosamente muraglie, tetti, soffitti, mobili, gli uni sugli altri, addosso alle vittime: eppure sotto quegli schiacciamenti, in molti casi, un frammento di muro, una trave, un armadio obliquo, magari un letto, avevano creato un cunicolo, una celletta inverosimile nella quale un infelice palpitava ancora, sperava, forse riusciva a gridare..
Alcuni episodi in questo campo fanno rabbrividire.
Il comandante russo della Makaroff raccontò: 
“I marinai avevano trovato un letto su cui giacevano sei piani di casa, entro un mucchio di macerie inframmezzate da cadaveri: sotto quel letto due bimbi giocavano, gravemente, con dei bottoni...”
I particolari che si riferivano ai bambini erano i più strazianti: 
“Avevamo raccolto moltissimi bambini – dichiarò ancora il comandante della Makaroff – qualcuno in braccio alle madri morte, qualcuno, morto, in braccio alla mamma impazzita. A bordo i marinai (non disponevano di una stilla di latte) davano loro a succhiare il dito intinto nell’acqua”.
Ecco, tra i molti episodi che punteggiarono l’opera della Sovrana a Messina, un momento drammatico concernente un bimbo.
In una casa, mentre la Regina assisteva al salvataggio di alcuni semisepolti, a un certo momento ella stessa si trovò ad accogliere tra le braccia un bambino molto piccolo. Ma, per liberarlo, le macerie erano state smosse, e travi e travicelli minacciavano di franare. Una trave, o moncone di trave, si appesantì in direzione del bambino sorretto dalla Regina, e questa, per salvare la piccola vita che le palpitava ancora tra le braccia, sostenne il peso della trave sulla propria spalla, finchè i militari che operavano lì non accorsero a liberarla.
L’episodio, rimasto famoso, è stato effigiato in uno dei tre alto-rilievi che adornano la base del monumento eretto ad Elena in Messina.
Un altro aspetto particolare della tragedia era la frequenza dei casi di pazzia, o, almeno, di choc gravissimo.
Lo stesso comandante della Makaroff raccontò: 
“Avevamo anche molti pazzi, i quali cercavano tra le macerie immaginarie, nei corridoi di bordo: abbiamo dovuto chiudere i corridoi dei forni, per timore che vi si gettassero!”
Il ministro Mirabella, dopo aver visto la regina all’opera disse a un giornalista:
“...È stata un sublime angelo di carità. Scelto per suo campo d’azione la corazzata che porta il suo nome, si è dedicata personalmente alla cura e medicazione di centinaia di feriti, assistendo nelle operazioni il chirurgo Bastianelli, recando nella sua opera di intelligente soccorso, l’esperienza di studi fatti sul serio in Russia. Veramente provetta nell’assistenza ai feriti, ha con le sue mani alleviato le sofferenze di tanti infelici. Non paga di ciò si diede a cucire, coadiuvata da signore e da donne del popolo scampate al disastro, vestiti, specialmente per le donne e i bambini, che ne erano privi e soffrivano il freddo. La Regina Elena ha mostrato ancora una volta la dirittura del suo animo, che è pari in nobiltà e coraggio alla sua infinita modestia. Basti quest’esempio.
Mentre stava curando feriti, una profuga, evidentemente esaltata, penetrò nell’infermeria gridando che il disastro era così immenso che era meglio morire. Una donna a questo appello di disperazione, si scosse e corse verso l’uscita gridando di volersi gettare in mare. La Regina, allargando le braccia si mise attraverso la porta per impedire alla infelice la corsa verso la morte, e si ebbe dalla donna, che le si avventò contro a capo basso, un fortissimo colpo al petto.
Potè così impedire alla sventurata di suicidarsi, ma ebbe a soffrire del colpo ricevuto. Non volle farsi visitare nè curarsi, e continuò intrepida la sua opera di carità, quantunque alle sue labbra giungesse dal petto, per la contusione prodotta dal colpo ricevuto, qualche rossa goccia di sangue.
La Regina Elena è degna di tutta l’ammirazione, di tutto lo affetto del popolo italiano”.



Febo della Minerva: Il pazzo che piacque a Dio. Biografia di padre Giovanni Messina.
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Febo della Minerva: La mattina del 28 dicembre 1908 ebbe luogo il terremoto di Messina... Tratto da: Il pazzo che piacque a Dio. Biografia di padre Giovanni Messina.

La mattina del 28 dicembre 1908 ebbe luogo il terremoto di Messina. Per ricostruire rapidamente gli avvenimenti, citeremo alcune testimonianze di persone che si trovarono presenti alla catastrofe. Ecco, per esempio, ciò che videro gli ufficiali della “Saffo” ancorata nel porto:
“Alle 5,20 della mattina uno spaventoso sussulto dal fondo del mare dette una violenta scossa a tutte le imbarcazioni ancorate nel porto; il mare improvvisamente si gonfiò, alzandosi in una enorme montagna ruggente dallo stretto, e si rovesciò con cupo rombo furioso ai lati di comunicazione, e fracassando le navi. Il piroscafo austro-ungarico Audrassy rimase in balia delle onde, e tutta la banchina venne distrutta in breve tempo.
Un istante dopo, la superficie del mare apparve coperta di botti, d’imbarcazioni, di rottami, di battelli, di casse di petrolio, di frutta, di agrumi e un nembo fittissimo coprì la povera città da cui si elevavano acute strazianti urla invocanti soccorso.
Quando spuntò l’alba, allora soltanto riuscimmo a farci una idea dell’immane disastro. È impossibile descrivere l’orrore in tutta la sua tragica grandezza: pressocché tutta la fiorente città era ridotta a un cumulo di macerie; e in mezzo a tante rovine, come giganteschi e sinistri scheletri, restavano in piedi le mura del Municipio e del Grand Hotel Trinacria, diroccate esse pure. Tutti gli altri palazzi erano scomparsi; le vie erano ostruite; nei vari punti della città ormai ridotta ad una orribile rovina, si levavano le fiamme e il fumo avvolgente degli incendi che qua e là si erano sviluppati in quel momento terribile.
Il capo timoniere Donini della Saffo scese a terra con otto marinai, lottando energicamente contro il furore delle onde, e riuscì a penetrare con i suoi uomini in Messina, dove si accinsero tutti all’opera di salvataggio.
Grida, lamenti, invocazioni, gemiti di moribondi si levavano fra le macerie con una insistenza che serrava il cuore... Il capo timoniere Donini e i suoi pochi compagni, dalle otto alle dodici riuscirono a salvare dalle rovine una quindicina di sepolti soccorrendo molti altri...
Anche gli Ufficiali della R. Nave Piemonte con un gruppo di marinai operarono miracoli di coraggio.
Erano nel porto la corazzata russa Makaroff ed un incrociatore inglese.
Il comandante della Makaroff raccontò che sotto tutti i mucchi di rovine si udivano grida strazianti di aiuto: “difficile la scelta delle persone da salvare, ma abbiamo dovuto deciderci per non perdere un minuto di tempo. Abbiamo potuto salvare circa mille persone e installare a terra un piccolo ospedale volante sotto la direzione del secondo medico di bordo...” 
Il racconto incredibile di un superstite.
Un viaggiatore trentino, Giuseppe Gardier, di 27 anni, rappresentante di commercio, il quale si trovava in partenza da Messina, raccontò: 
“Ero appoggiato al parapetto del Ferry-Boat, attendendo l’istante della partenza, quando all’improvviso, tra un fragore pauroso, uno scrosciare tremendo di acque e un tumulto indicibile, il Ferry-Boat fu sollevato dal mare. La terra, alla quale eravamo ancora attaccati, tremò davanti ai nostri occhi e gli edifici precipitarono.
Noi fummo spinti contro il pontile che s’infranse. Nello stesso tempo la nave era spinta indietro con le acque e tra noi e la terra si aprì come un baratro, ma istantaneamente il mare si precipitò di nuovo sulla banchina. Ero appena sulla terra quando una altra immane ondata rimetteva il Ferry-Boat in mare, spezzando tutti gli ormeggi e le catene: tutto era spezzato. Un gran polverone sorgeva dappertutto, e dovunque crollavano edifici; dovunque era un gridar confuso e tumultuoso come di migliaia di voci.
Mi diedi a correre all’impazzata, seguendo la linea che dal Ferry-Boat va alla stazione.
Durante la corsa inciampavo tra morti e rottami: caddi e mi rialzai con le mani imbrattate di sangue.
Correndo giunsi in piazza della stazione: a poca distanza vidi un giovane inginocchiato che cercava di strappare da un mucchio di pietre un corpo umano, tirandolo per i piedi: mi fermai a guardare: con uno sforzo vigoroso il giovane trasse fuori tutto il corpo e chiamò disperatamente il padre. Il cadavere aveva il cranio spezzato. Quando il giovane si accorse di non aver fra le braccia che un morto, lanciò un urlo da pazzo, un urlo da belva, e abbandonando il cadavere si lanciò a corsa sfrenata con la testa in avanti contro un muro per battere il capo e uccidersi. Cerco di trattenerlo, ma non vi riesco: vero che egli sta per raggiungere la meta fatale; inorridito, volgo il capo e fuggo, fuggo anch’io, come un pazzo. Corro, corro verso il mare, credendo di andare verso la salvezza...”


Febo della Minerva: Il pazzo che piacque a Dio. Biografia di padre Giovanni Messina.
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mercoledì 27 dicembre 2023

Filippo La Torre: Due bambini erano scolpiti su una piccola panca... Tratto da: La primavera della strummula. Romanzo.

 
Se in quel giorno di fine agosto fosse caduta la pioggia, le gocce sarebbero state stille di piombo o lacrime di sangue rappreso. Suor Ludovica arrotolò in alto le maniche del suo leggero maglioncino, poi mi allungò la mano bianca e affusolata. Mi sorrise nuovamente interrogandomi con lo sguardo. Temeva che la rifiutassi ma io l’afferrai con decisione e lei, veloce, con passi agili mi condusse in un largo atrio, ombreggiato al centro da un enorme ficus magnolia. Attorno al vecchio tronco, contorto dall’età, ma liscio come la pelle di un albero giovane, stavano tante panchine di ferro verniciate di verde. L’una accanto all’altra, si toccavano solo in un punto e disegnavano un cerchio quasi perfetto. Delle intricate radici, simili a liane aggrovigliate, scendevano dall’alto quasi fino a terra, ma rimanevano tutte sospese in aria. Immaginai il loro struggente desiderio di afferrarsi alla terra che nutre. Mi sembrarono condannate a espiare ancora il peccato originale. Questa era anche la mia condizione. Così la sentivo. Di castigo e di penitenza. Ma quali erano le mie colpe e chi aveva emesso la sentenza? 
Non c’erano altri alberi. Solo in fondo, a sinistra, una siepe circondava un piccolo orto. L’atrio era recintato da un lungo muro, alto circa tre metri con sopra del filo spinato. A metà era interrotto da un altro cancello, di ferro però, a due ante, anch’esso dipinto di verde. Sotto il ficus, una statua poggiava su un basamento di marmo bianco. La targhetta di bronzo riportava il nome dell’autore della scultura: Pasquale Civiletti, un famoso scultore specializzato in opere che amano riposare al fresco, sotto gli alti cipressi dei cimiteri, a testimoniare la fragilità della vita umana. Due bambini erano scolpiti su una piccola panca. Uno stava seduto con le spalle appoggiate al basso schienale. Stringeva al collo, con le mani intirizzite, il bavero della sua giacchetta lisa e leggera. L’altro, adagiato su un fianco, dormiva in posizione fetale con la testa appoggiata sopra la spalliera, anche lui con il bavero della giacchetta rialzato. Erano scalzi e i loro pantaloni laceri. Non ricordo più se fossero scolpiti in marmo nero o fusi in bronzo dipinto, ma apparivano blu dal freddo. Il sole d’estate, filtrando con forte prepotenza tra gli alti rami, li riscaldava. I loro occhi luccicavano e a toccarli erano veramente caldi, ma non avevano vene e sangue che scorreva. E poi a volte sembravano vecchi e a volte bambini. Incupiti, con lo sguardo senza un orizzonte, non lanciavano messaggi di gioia. Non erano certo lì per dare una buona accoglienza a noi piccoli e soli, desiderosi di affetto. Pensavo che solo una mente dal sadismo raffinato potesse essere il regista di tale scena. 
Compresi che la monaca dalla faccia di porcellana voleva darmi motivi di distrazioni, ma ormai mi sentivo in gabbia, circondato com’ero da alte mura cinte con filo spinato e alti cancelli insormontabili. Per la prima volta nella mia vita, e a soli sei anni, provai quello che può subire un topo prigioniero nella gabbia. Ragionai anche sui poveri pipistrelli che catturavo nel buio umido delle grotte del fiume Oreto. Realizzai allora il concetto di libertà associandolo anche alle grida gaudenti che avevo ascoltato, per brevi attimi, prima di fare il mio ingresso all’Istituto Superiore per l’Infanzia Abbandonata.
«Andiamo sopra, Camurrìa, ti assegnerò il tuo posto in camerata. Seguimi!» – mi esortò improvvisamente suor Ludovica.
«Nun curriri però. Sugnu ancora nicu e nun ti pozzu stari d’arreri» – la implorai.
«D’accordo, Camurrìa!»
La suora riuscì a farmi sorridere e finalmente scesero le mie prime lacrime trattenute per così troppo tempo, che ormai si erano seccate. 



Filippo La Torre: La primavera della strummula. Romanzo. 
Pagine 270 - Prezzo di copertina € 22,00
Sconto del 15% se acquistato online al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
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Nella foto: Il cortile di quello che era l'Istituto Superiore per l'Infanzia Abbandonata (oggi istituto Thomas More), dove si vede la statua de "I senza tetto" opera del Civiletti. 

venerdì 22 dicembre 2023

Luigi Natoli: Anche il terzo Natale che faccio in guerra è trascorso... Tratto da: Ricordi di Clodomiro, mio figlio.

...anche il Natale, il 3° che io faccio in guerra è trascorso!... Come avrei voluto averti qui, fra noi! Quante cose belle ho potuto riscontrare! Chiusi in piccole e basse barracchette, a gruppi, questi piccoli soldatini, umili e oscuri eroi, sembrano tanti Robinson Crosuè! Anche loro han cercato di trascorrere il Natale più allegramente possibile!... Che graticole improvvisate! Che cucinieri! Eppure il loro pranzo era gustoso; l’ho assaggiato; forse più gustoso perché fatto così, alla primitiva. In una barracchetta ho trovato tutti cucinieri: uno grattugiava il formaggio con una grattugia... bisognava vederla! un altro sul fuoco; in un coperchio di gavetta, che rappresentava una padella, friggeva le cipolle, un altro apparecchiava, ecc. ma bisognava vedere come e quanto zelo mettevano in quelle faccende domestiche!... Questa sera, 26, esco in ricognizione. Ti scriverò domani, al ritorno...

Luigi Natoli: Ricordi di Clodomiro, mio figlio. 
Pagine 72 - Prezzo di copertina € 10,00
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Febo della Minerva: E giunto il primo Natale del dopoguerra... Tratto da: Il pazzo che piacque a Dio. Biografia di padre Giovanni Messina.

E giunto il primo Natale del dopoguerra, a mezzo della stampa cittadina, il Padre non trovava umiliante stendere la mano ai benefattori, affinchè quel santo giorno fosse lieto anche per i piccoli Orfani della guerra ricoverati nel suo Istituto.
“È risaputo che la santa istituzione pro infanzia, che ha dato tanto valevole contributo per lenire le sofferenze prodotte dallo stato di guerra, dando asilo gratuito a orfani di militari morti in guerra e a figli di militari vedovi privi di qualsiasi assistenza, vive della carità pubblica. Così ai piccoli orfani sarà gradito qualsiasi soccorso, sia in denaro che in roba che sarà loro inviato”.
Non si finirebbe più se si volessero riportare tutte le citazioni, in merito, registrate nel giornale della Casa, – tanta ne è la copia.
Amore più Amore meno matematica dà per somma: Dio. O, se meglio piace: Provvidenza, amiamo ripetere ancora.
Credeva con la stessa fede di Francesco, il Poverello, che rabbonì il lupo affamato di Gubbio; credeva con la stessa fede di Chiara che moltiplicò il tozzo di pane per le sue povere Suore; con la fede di Giuseppe Cottolengo quando raccolse i primi malati; di Giovanni Bosco quando accolse a casa sua i primi monelli.
Questa fede egli possedeva. Ne era certo, tanto certo da poterne assicurare i suoi “dolci Orfani” e le sue Suore.
“Sempre ho inteso ripetere al mio orecchio ch’io sono stato destinato dalla Provvidenza per custodirvi”.
E questa sua fiducia e abbandono in Dio, ebbe sempre la sua giusta risposta in cielo.
Come San Giovanni Elemosiniere, senza falsi atteggiamenti pietistici poteva anch’egli scommettere col suo Dio:
“Vedremo, Signore, chi di noi due rimarrà senza, per primo; o Tu nel dare a me, o io nel dare ai poveri”.


Febo della Minerva: Il pazzo che piacque a Dio. Biografia di padre Giovanni Messina.
Pagine 384 - Prezzo di copertina € 22,00
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Febo della Minerva: La strenna natalizia agli orfanelli calabresi vittime del terremoto (Natale 1905) Tratto da: Il Pazzo che piacque a Dio. Biografia di padre Giovanni Messina

Ad incoraggiare il Sac. Messina non è mancata la parola del Pontefice, del Cardinale Celesia e di Monsignor Lualdi, i quali gli hanno mandato le loro benedizioni; ed egli non si stanca, lotta e vince, e la Casa Lavoro e Preghiera è là, prova ineluttabile di quanto può nell’uomo l’azione di un sentimento così nobile, così santo come quello della Carità.
Anche noi, stati sempre costanti ammiratori di quest’uomo, ci siamo commossi vedendolo volare in Calabria a raccogliere e condurre seco 30 orfanelli delle vittime del terremoto, ed anche noi da queste colonne gli mandiamo la espressione della nostra sincera ammirazione. 

Mentre a Palermo, la stampa cercava di mettere nella giusta luce l’attività caritativa del Padre, a Reggio Calabria non venivano dimenticati i generosi Apostoli del bene, nè gli sfortunati orfani che da qualche mese erano stati destinati in varie regioni d’Italia, e ad essi si pensò in occasione del primo Natale, dopo il disastro.
Togliamo dal giornale settimanale di Reggio Calabria, Fede e Civiltà, 23 dicembre 1905, questo trafiletto, che va sotto il titolo:

LA STRENNA NATALIZIA AGLI ORFANELLI CALABRESI

Spuntata nel sorriso sincero della gratitudine, cresciuti sotto il ghigno beffardo della persecuzione che è, come disse un dì Cavallotti, il crisma che consacra ogni opera buona, l’idea della Strenna Natalizia per gli Orfanelli Calabresi raccolti dal benemerito apostolo della Carità, Padre Gerardo Beccaro, e dal buon Padre Messina, è divenuta una realtà.
Sono quarantadue casse del peso complessivo di dodici quintali che arrivando nei singoli Istituti porteranno alle piccole vittime dell’orrendo terremoto, i fichi secchi, le arancie e con essi un vivido sorriso del loro cielo e del loro mare, un caldo bacio dei parenti e degli amici, una carezza della patria Calabra.
I bambini portati a Palermo trovarono in padre Messina il caldo affetto dei parenti scomparsi sotto le macerie, ed il vivido sorriso del loro cielo e del loro mare”.

Così come, due anni dopo, affetto e pane trovarono in lui altre bambine rimaste orfane nel disastro di Ottajano – Vesuvio del 1907.


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Filippo La Torre: "Canta Astro del Ciel!"... Tratto da: La primavera della strummula (Vigilia di Natale 1951)

 
Era arrivata l’ora per uscire nell’atrio e suor Maria, dopo aver scambiato un’occhiata d’intesa con suor Gioacchina, si avvicinò al mio tavolo e mi strinse un braccio due volte. Lo interpretai come un gesto a metà strada tra l’incoraggiamento e la prevaricazione, poi mi accompagnò sopra la pedana disponendomi come un burattino sotto la gigantografia dell’Ultima Cena. Meccanicamente lisciò le mie spalle e i capelli che non avevo, mi accarezzò il viso. Fu un’affettuosità fuori luogo e fuori tempo. Senza alcun affetto. Abbassandosi su una guancia mi disse all’orecchio:
«Canta Astro del ciel!»
Facevo parte del coro che accompagnava la Santa Messa e, al contrario di tutti gli altri bambini, avevo una voce tenorile.
Fui annunciato. La cosa mi sorprese ma non m’intimidì, anzi mi sentii importante. Le dame di carità si avvicinarono alla pedana squittendo e finsero un tiepido interesse. Suor Maria si accomodò al pianoforte. La signora dal cappello a sacco estrasse dalla sua borsa un contenitore di tartaruga lucidata. Sollevò il coperchio, prese dal suo interno un batuffolino che pressò delicatamente sulla cipria rosa guardandosi a uno specchietto, e lo passò con movimento circolare sulle raggrinzite  guance. La osservai mentre cercava di mentire senza risultati, alle cattiverie del tempo. Lei ricambiò con uno sguardo pieno di sdegno, insofferente e invidiosa della mia giovane età. Chiusi gli occhi, feci un bel respiro, un profondo respiro e il profumo di zagara regina che si sprigionava dalle dame di carità mi condusse al giardino di Villa Nave. Non volevo che quell’immagine scomparisse dalla mia mente. Mi riportava i ricordi degli odori d’acqua, terra, fango e immagini, tante immagini, e voci, e abbaiare di cani, canti di uccelli, grida conosciute di uomini e donne. Continuai a rimanere con gli occhi chiusi. Partirono le prime note. Non riuscivo a vedere le dita grassocce di suor Maria ma le immaginavo, mentre zappavano sui tasti bianchi e neri di avorio ed ebano del pianoforte. Cantai, ma più che note erano grida di mal sopportazione:

Astro del ciel
Pargol divin
Mite Agnello redentor
Tu che i vati da lungi sognar...

Alla fine della mia esibizione aprii gli occhi. Le dame di carità applaudirono ma con molta, troppa discrezione. Sembravano avere le mani doloranti. Molto più fragoroso fu l’applauso dei piccoli ospiti dell’Istituto Superiore per L’Infanzia Abbandonata. Non provai nessun prio. Avrei voluto essere a casa, nel giardino di aranci del nonno. Suor Maria aveva le lacrime agli occhi ma non riuscirono a trarmi in inganno. Anche se ero consapevole di aver cantato bene, capivo che non si trattava d’intenerimento: la suora aveva sempre difficoltà a digerire e tratteneva i suoi rutti a fatica. Subito dopo ci avviammo verso l’uscita. Passando dal tavolo ancora imbandito delle dame di carità, che mangiarono poco e con troppa lentezza, rubai un pezzo di cassata siciliana. Pensai che fosse destinato a finire nell’immondizia o dato in pasto alle galline. Sarebbe stato uno spreco, di quelli gravi.
«Miché, talìa chi ti pigghiavu!»
Michele non credeva ai suoi occhi acquosi mentre osservava la pasta di mandorle, colorata di verde, ripiena di morbida e bianca ricotta. Sopra, a guarnire come prezioso diamante rosso, stava un mezzo mandarino candito. Le lacrime di gioia somigliarono a quelle dei suoi pianti e divorò il dolce in soli due bocconi per la paura che suor Maria potesse accorgersene, ma soprattutto per non rischiare di dividerlo con qualcun altro. La crema di ricotta si sparse ai lati della sua bocca, divenne più liquida e mischiandosi alle sue usuali bave, gli colò sul mento facendomi schifo. Ancora due giorni e sarebbe venuta la mia mamma a prendermi. Il Natale lo avrei trascorso a casa insieme alle mie sorelle. Michele, invece, sarebbe rimasto assieme a pochi altri, tra le mura dell’Istituto. Chiesi alla mamma se potevamo portarlo con noi a Villa Nave, ma suor Gioacchina si oppose. Mentì, dicendo che non era stato possibile mettersi in contatto con i suoi genitori e che l’Istituto non poteva prendere nessuna responsabilità di quel tipo.


Filippo La Torre: La primavera della strummula. Romanzo. 
Pagine 270 - Prezzo di copertina € 22,00
Sconto del 15% se acquistato online al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store online (anche in e-book) e in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita centro commerciale Conca d'Oro), Libreria Nike (Via Marchese Ugo 56), Libreria Macaione (Via Marchese di Villabianca 102) La Nuova Bancarella (Via Cavour).

Filippo La Torre: Quella mattina c'era un gran fermento... Tratto da: La primavera della strummula (Vigilia di Natale 1951)

Quella mattina c’era un gran fermento. Saremmo usciti prima dall’aula perché le dame di carità venivano a farci visita. Così ci dissero già di buon mattino, mentre ancora infreddoliti e assonnacchiati ci accalcavamo ai lavandini. Suor Maria vigilava dietro di noi con la solita raccomandazione:
«Lavatevi bene le orecchie e il collo!»
Questa era una sua fissazione e quel giorno lo aveva ripetuto più volte a voce alta. Ci spiegava che le dame di carità erano delle signore per bene che portavano in dono dolci e regalini, proprio come i Re Magi, ma senza il manto regale e la corona. Arrivano sempre ogni anno alla vigilia di Natale e in quell’occasione mangiavano con noi, però su un tavolo a parte insieme alla Madre superiora. Io non avevo mai visto una tavola apparecchiata così elegantemente, con la tovaglia di un bel colore bianco e i quattro lati ricamati di margherite rosse. Per ogni posto c’erano bicchieri diversi, tante forchette e coltelli e piatti bordati d’oro. Il tavolo, in tutta la sua lunghezza era arricchito da vasetti colmi di semplici e delicati fiori; tra l’uno e l’altro, i candelieri accesi tremolavano la loro luce come se fosse un altare. Margherita, una delle ragazze addette alla cucina, era stata messa a disposizione delle dame e girava attorno al loro tavolo cambiando ogni volta il piatto sporco. Non indossava il solito grembiule grigio scuro ma, per quel particolare evento, era vestita di un bianco candido. Per noi avevano cucinato, come sempre, i cavatuna con il sugo e polpette di uova e mollica, anch’esse con il sugo, e tutte e due le pietanze ci furono servite nello stesso piatto di plastica. Mentre affondavamo le forchette nell’intingolo, il nostro pensiero andava costantemente agli illustri ospiti benefattori, con un unico interrogativo: ci avranno portato il dolce? 
L’ampio salone del refettorio accolse i bambini con un timido silenzio, poi partì un brusio indefinibile a commento degli eleganti e strani cappelli delle dame, tutti dai motivi floreali. Le loro teste sembravano dei giardini fioriti, finti e decadenti. Una dama dal volto piuttosto incipriato, si scapricciava di un cappello viola a sacco, ornato da rose dello stesso colore, che le cadeva mollemente sulla testa. Quei fiori mi fecero pensare alla morte. Attimi di tristezza per colpa di una liturgia che associa il colore violaceo alla Commemorazione dei Defunti. Un’altra signora indossava un cappello fucsia, di panno francese, addobbato con grosse margherite bianche e gialle. La più audace, a dispetto dell’età avanzata, si adornava impudicamente di un gigantesco crisantemo beige, senza stelo, attaccato su una testa spelacchiata di vecchia donna. Malferma, si appoggiava a un bastoncino anch’esso colore beige, dal pomello rosa. Margherita fu premurosa nel prendere i loro cappelli e soprabiti, mostrando una distinzione e una grazia che non le riconoscevo.
Le dame di carità profumavano tutte come la zagara regina che cresceva dietro la casa del nonno. Era la moda del momento e, cosa che mi sembrò strana, mangiavano con la bocca chiusa; tra un boccone e l’altro nessuna parola, soltanto cenni di accondiscendenza e occhi sgranati. Alla fine del pranzo, annoiata e sbuffante, Margherita passò tra i nostri tavoli con una cesta. A ciascuno diede un sacchetto di carta con dentro tre taralli. La delusione fu di tutti, eppure già lo sapevamo.
«A mia nun mi piacinu, avissi vulutu un cartocciu ca ricotta!» – disse imbronciato Michele.
Leggevo sul volto del mio amico uno sconforto prossimo al pianto. Gli presi il sacchetto dalle mani con una promessa:
«In canciu ti dugnu mezzu cartocciu. Ni spartemu chiddu ca mi porta u nonnu a duminica».


Filippo La Torre: La primavera della strummula. Romanzo. 
Pagine 270 - Prezzo di copertina € 22,00
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martedì 12 dicembre 2023

Si è parlato de "La primavera della strummula" all'Istituto Gramsci di Palermo, il romanzo di Filippo La Torre edito I Buoni Cugini


Si è parlato de "La primavera della strummula" ieri pomeriggio 11 dicembre all'Istituto Gramsci di Palermo, con l'autore Filippo La Torre, la giornalista e scrittrice Daniela Tornatore, il tutto impreziosito dalle letture di Vincenzo Crivello.
Un ritorno al passato nei ricordi di Filippo La Torre, che hanno coinvolto ed emozionato i presenti. 
"Dumani ti portu in una casa granni. U sai? Ci sunnu tanti picciriddi. Tra setti jorna ti vegnu a truvari e se u postu nun ti piaci, ritorni a casa cu mia". Così inizia il libro, e con queste parole apre la presentazione Daniela Tornatore, dopo i saluti dell'editore Ivo Tiberio Ginevra.

Il volume è disponibile: 
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
In tutti gli store di vendita on line e in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita Centro Commerciale Conca d'Oro), Libreria Nike (Via Marchese Ugo 56), Libreria Macaione (Via M.se di Villabianca 102), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15). 



"La primavera della strummula" l'infanzia di Filippo La Torre nel suo nuovo libro. Grazie a Amalia Vingione per la bella recensione su 361 Magazine

 

“La primavera della strummula” è il racconto che Filippo La Torre fa dei cinque anni trascorsi in un istituto per l’infanzia abbandonata.

https://361magazine.com/la-primavera-della-strummula-linfanzia-di-filippo-la-torre-nel-suo-nuovo-libro/
 
La primavera della strummula (I Buoni Cugini editori) è un libro toccante e commovente, in cui l’autore, Filippo La Torre, racconta i cinque anni trascorsi nell’Istituto Superiore dell’Infanzia Abbandonata. La Torre mette per iscritto, in maniera particolarmente efficace, le emozioni e le sensazioni provate in quell’arco di tempo: giorni felici nel suo luogo natio, il Baglio di Villa Nave, in contrapposizione alle rigide regole dell’Istituto, il tutto raccontato attraverso gli occhi di quel bambino con il quale il lettore non può empatizzare.
Il libro affronta temi importanti come l’infanzia abbandonata, le privazioni e la mancanza di libertà, le difficoltà di vita negli anni ’50 del secolo scorso, soprattutto nelle zone a forte vocazione contadina. La narrazione dei fatti o, meglio, dei ricordi è così vivida da non lasciare spazio a fraintendimenti: sono anni difficili, colmi di lacrime, tristezze, desideri, attese, ma che a volte lasciano spazio a piccole grandi vittorie.
Nella prefazione scrive Filippo La Torre: “Nacqui in una stalla e non c’era nemmeno una finestra, nemmeno una grata a lasciare fuori luci e suoni. Tutto quello che sarebbe venuto dopo, era solo libertà. E così fu ma solo per cinque brevi anni”.
Il libro si apre con i ricordi al Baglio, un “grande palcoscenico” dove “i teatranti si alternavano, anno dopo anno, vivendo la loro inconsapevole recita”. Il Baglio è, però, molto più di un palcoscenico: è un’alcova, in cui ci si sente protetti nonostante i soprusi del signorotto di turno. Molto bello e significativo a tal proposito è il racconto di un episodio in particolare, a cui Filippo La Torre assiste durante un periodo di vacanza. Un proprietario terriero locale, don Nenè, possedeva un pastore tedesco particolarmente feroce, che desiderava far combattere con Ferraù, il cane della famiglia La Torre, il più rispettato del circondario a cui tutti, uomini e animali, porgono ossequiose attenzioni. Il combattimento si tenne e la vittoria di Ferraù sancisce il suo dominio sull’altro.
Al di là dell’evento in sé, l’episodio ci insegna che il vero valore delle cose consiste nella lealtà, nella semplicità, nell’onestà, nell’amore. Se non si posseggono queste caratteristiche, nessun bene materiale potrà renderci persone migliori o rispettabili.
Con questo libro scopriamo anche i luoghi, i sapori e gli odori di un tempo che ormai sembra perduto: la semplicità di mangiare frutti di stagione colti direttamente dalla pianta, i profumi e i sapori dei limoni, il caldo della stagione estiva e i tuffi nelle vasche di raccolta dell’acqua raccontati all’inizio del romanzo, ma anche la felicità provata in un regalo inaspettato.
Su tutta la narrazione aleggia un forte sentimento di malinconia, dettato da quegli anni duri che non sono mai del tutto passati. Dice l’autore: “Non sono riuscito a liberarmi dalle innumerevoli sfumature di grigio che in alcuni momenti affogano nel nero più nero, ma questa è stata la mia vita e quella di tanti bambini cresciuti come me ai margini della società, che soltanto un destino ferocemente avverso ha deviato dalle strade tracciate”.
Tuttavia, attraverso questa narrazione – i cui personaggi ed episodi posseggono la stessa potenza dei protagonisti di Charles Dickens – si ha la sensazione che l’autore compia una sorta di catarsi esistenziale, in cui c’è il tentativo di pareggiare i conti con un passato che non può essere cancellato, ma al quale si può guardare con quella compassione e dolcezza che solo l’età matura è in grado di dare
.

Amalia Vingione

La primavera della strummula di Filippo La Torre è disponibile: 
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Su tutti gli store online e in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita presso Centro Commerciale Conca d'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria Macaione (Via M.se Villabianca 102), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15) 

lunedì 4 dicembre 2023

Se il mare (a Palermo) parlasse... La notte dei pesci volanti: quasi-romanzo di Antonio Petrucci. Articolo pubblicato su "La Libertà" di Reggio Emilia

Antonio Petrucci collabora con La Libertà da quasi vent’anni. È un giornalista pubblicista dal 1984 ed ha pubblicato articoli e saggi su giornali, riviste e volumi collettivi. Si occupa prevalentemente di filosofia, storia e letteratura, ma anche di attualità: la guerra in Ucraina e la condizione femminile in Iran sono soltanto alcuni dei temi su cui su queste pagine di famiglia si è cimentato. Negli ultimi anni, poi, Petrucci ha dato alle stampe un tris di romanzi:
Lottando con l’angelo, Forse nel cuore della notte e L’estate dei microbi (quest’ultimo con la sorella Giulia). È appena uscito, in questa estate dal clima instabile, La notte dei pesci volanti per i tipo dell’editrice I Buoni Cugini di Palermo (102 pagine, 15 euro): otto storie ambientate sullo sfondo del mare palermitano, dove la stagione dell’adolescenza è rivissuta e dipinta con la consapevolezza un po’ nostalgica dell’età adulta.
 
Petrucci, dopo tre romanzi, questo è un libro di racconti?
Sì e no. La notte dei pesci volanti è un “quasi-romanzo”. Più che di otto racconti si tratta di otto episodi con gli stessi personaggi, gli stessi luoghi e lo stesso periodo storico.
 
Vogliamo parlare dei personaggi?
Sono due: Natale, che è l’io-narrante, e l’inseparabile cugino Achille; due ragazzi sui tredici/quattordici anni, che vivono l’adolescenza come una grande avventura… sullo sfondo del mare, del Golfo di Palermo e di uno storico stabilimento balneare.
 
Ti sei ispirato alla realtà?
In un certo senso, sì. Mi sono ispirato alle storie che mi raccontava mio padre quando ero bambino. Storie della sua adolescenza, appunto. Nel mio libro, l’ho voluto come personaggio e come narratore. Ho perfino mantenuto il suo vero nome, e quello degli altri personaggi…
 
Dunque, tuo padre ti raccontava delle storie?
Era un grande narratore, cioè un grande creatore di miti. L’ho preso anche come modello di stile: almeno all’inizio, ho cercato di imitare il suo modo di raccontare, ce era lirico e a volte anche un po’ surreale. Anche le immagini in copertina e nel retro del libro sono tratte da quadri di mio padre.
 
Ma, nel passare dal racconto orale a quello scritto, hai dovuto cambiare qualcosa?
Sì, perché fra la trasmissione orale e quella scritta ci sono molte differenze. La scrittura perde il supporto della voce e della mimica; obbliga a una maggiore attenzione alla psicologia dei personaggi e all’intrecciarsi degli eventi. Scrivere costringe a una maggiore coerenza fra l’inizio, lo sviluppo e la conclusione di una storia. Inoltre, alcune storie mi si presentavano alla memoria come quasi complete, mentre altre avevano bisogno di una più forte elaborazione.
 
Possiamo fare un esempio?
Va bene. Prendiamo come esempio il secondo episodio, “Le vongole di Achille”. Achille pesca le vongole per condirsi gli spaghetti; la pesca è faticosissima; commette l’errore di consegnare il sacchetto con le vongole a Natale, il quale le regala a una ragazza bellissima… La storia è vera e anche la conclusione della storia è vera, con la madre della ragazzina che butta le vongole… Io ho riempito il vuoto fra l’inizio e la fine. Cioè ho immaginato la reazione di Achille al “tradimento” e la riappacificazione fra i cugini.
 
Tuo padre aveva davvero un cugino che si chiamava Achille?
Te l’assicuro. Io l’ho conosciuto quando era adulto, un po’ corpulento, coi baffi, simpatico narratore a sua volta… ma nelle storie di mio padre era la sua spalla, il suo alter-ego, aveva qualcosa di mitico.
 
Qual è l’episodio che ti pare più significativo?
Tutti gli episodi sono segnati da una “rivelazione”. Forse io preferisco “Un tipo speciale”, la storia di un misterioso cane che resta per qualche mese con Natale ma corre al porto ogni volta che vede arrivare una nave… Perché aspetta il suo “vero” padrone, un marinaio… Natale gli attribuisce i suoi sentimenti, la fedeltà all’amore e il dolore per l’abbandono o la scomparsa di una persona cara. Mi pare dunque che la storia abbia un “nocciolo segreto”. Un’altra storia straordinaria è “Non era un fantasma”, la storia di una ragazza cacciata dal marito… Siamo in Sicilia e, soprattutto, siamo all’inizio degli anni Trenta…
 
…siamo dunque sotto il fascismo…
E infatti un bel giorno arriva allo stabilimento balneare un uomo che la polizia vuole arrestare perché ha scritto che il Duce è un mascalzone…
 
Mi pare un libro sull’adolescenza, che però affronta temi da adulti. Per concludere, dimmi del mare…
Ah, il mare di Palermo! Avresti dovuto vedere… una meraviglia fino agli anni Sessanta… pesci, granchi, vongole e un profumo di alghe… Adesso la balneazione è proibita giacchè le acque del Golfo sono considerate tutte acque portuali. Sì, il mio libro è pieno di mare… e forse di nostalgia… è un omaggio a come era il mare e a come, forse, potrebbe ancora essere.
 
Edoardo Tincani



Antonio Petrucci: La notte dei pesci volanti. Storie di Romagnolo. 
Pagine 102 - Prezzo di copertina € 15,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria a Palermo presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e presso il punto vendita del Centro Commerciale Conca D'Oro), Libreria Macaione (Via M. Villabianca 102), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56)


Palermo, presentazione del libro: "La primavera della strummula" di Filippo La Torre. Lunedì 11 dicembre presso l'Istituto Gramsci italiano

 


Sono i miei ricordi di bambino vissuto in un collegio per orfani o disadattati che s'innestano nelle condizioni di vita degli anni '50, in un piccolo agglomerato di case della periferia di Palermo abitate prevalentemente da braccianti agricoli, quasi un guscio: il baglio di Villa Nave. 

Non sono riuscito a liberarmi dalle innumerevoli sfumature di grigio che in alcuni momenti affogano nel nero più nero, ma questa è stata la mia vita e quella di tanti bambini cresciuti come me ai margini della società e che soltanto un destino ferocemente avverso ha deviato dalle strade tracciate. Così il paradosso che li insegue di avere la sorte avversa per vivere (Filippo La Torre)