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venerdì 10 maggio 2024

Luigi Natoli e le rivoluzioni in Sicilia (1820): Indipendenza o morte! Tratto da: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro.

 La sera del 15 luglio 1820, la via Toledo sfolgorava di luce, formicolava di gente. Era l’ultimo giorno di quel famoso “Festino” di Santa Rosalia, padrona di Palermo; che per la singolarità degli apparati, per la magnificenza degli spettacoli chiamava a Palermo una folla di isolani e stranieri. 
Quella sera la folla era maggiore, e aveva un aspetto più gaio. Negli occhi, nei gesti, v’era come il riverbero di una gioia, che non si sa né si può nascondere: v’era una irrequietezza, come di chi aspetti una letizia, che sa, e che tarda a venire. Gente si fermava, barattava saluti e parole, con vivacità di tono e di gesti: i più espansivi si abbracciavano. Qua e là si formavan crocchi e capannelli; che si allargavano e ostruivano il passaggio: ma ecco una fiumana d’altra gente fender la folla, urtare, scomporre il crocchio, trascinarne parte con sé.
Curiose fiumane di giovani e vecchi, di frati e preti, di cittadini e di soldati, a braccetto, o tenendosi per mano, affratellati da un sentimento di gioia, che traluceva dai volti, canticchiando e battendo il passo, avevano sul petto, sulle risvolte delle vesti, sulla tonaca una coccarda nera rossa e turchina: alcuni vi avevano aggiunto un nastro giallo con l’aquila siciliana stampata in nero. 
Tutta la via Toledo formicolava di queste fiumane, che si raggiungevano, si fondevano, formavano una massa rumorosa, mobile; che scendeva giù, verso la piazza Marina, si fermava dinanzi al “Carro”; guardava in su, l’immagine della “Santa” librata fra le nubi, sulla cui veste candida e luminosa svolazzava un nastro nero, azzurro e rosso. E allora gridavano: 
- Viva Santa Rosalia!
Una voce aggiunse: 
-  Viva la Costituzione!
Parve il razzo aspettato per dar fuoco alle polveri. Da tutte le bocche proruppe quel grido: - Viva la Costituzione! –; e così terribile che ne tremarono i vetri delle case vicine; migliaia di mani sventolarono in aria cappelli e fazzoletti: il grido si propagò, risalì per la via Toledo, più alto, più entusiastico: la città trasaliva, scossa da quell’irrompere di un sentimento lungamente represso; e pareva che i suoi polmoni si allargassero, come bevendo un’aria nuova e più pura. 
Intorno a Tullio e al narratore si era formato un grosso capannello, che allargandosi pel sopraggiungere di altra gente, e dei fuggitivi, che volevano sapere almeno perché erano fuggiti, diventava a poco a poco folla. Qualcuno aggiungeva un particolare nuovo, il racconto si moltiplicava; i commenti ne esageravano la portata. V’erano i “bene informati”, quelli che “possono saper la cosa meglio degli altri”, che hanno “confidenze coi pezzi grossi” di cui tacciono il nome, i quali spiegavano gli avvenimenti e predicevano quelli avvenire. Tullio prendeva parte vivissima a questi discorsi, esponendo con calore di un neofita il programma dei Carbonari, e la folla l’udiva volentieri, consentendo e approvando. 
Mentre così parlavano, ecco un rullar festoso di tamburo, e un gridar di mille voci. Tutti si voltaron con ansia e con sospetto; al lume dei lampioncini e delle lampade vedono una nuova folla avanzarsi, preceduta da un popolano che batteva un grosso tamburo, e da un alfiere che levava in alto sopra un bastone come un trofeo un cappello piumato da generale. Era il cappello del generale Church. Una massa di giovani popolani vedendosi sfuggire il collerico irlandese, e non potendo sfogarsi altrimenti, era corsa a devastargli la casa e ad appiccarvi il fuoco; e se ne ritornava adesso portandone in giro il cappello, oggetto di scherni, di lazzi plebei. La folla passò oltre urlando e ridendo; ma gran parte vedendo quella calca ferma intorno a Tullio che gesticolava, lasciato il cappello del Generale, si fermava anch’essa. Qualcuno aveva gridato che non era da sperar presto l’indipendenza; che secondo le notizie di Napoli e le istruzioni date al generale Naselli, ci sarebbe stato un solo Parlamento a Napoli. 
- Noi siamo soltanto una provincia di Napoli!
Queste parole sollevarono urla di protesta e di minacce.
- No! No! Questa costituzione è una truffa! Ribadisce la nostra servitù! Vogliamo l’indipendenza!...
- Il re ci tradisce!  - gridava Tullio – bisogna sventare i suoi disegni. Se noi saremo forti, costanti e unanimi, gli imporremo la costituzione e l’indipendenza, saremo uomini liberi e avremo la nostra dignità, invece di essere provincia di Napoli! È inutile far chiacchiere, ci vogliono i fatti!
- Ha ragione! Ha ragione!
- Noi non eleggeremo nessun deputato pel Parlamento a Napoli. Li eleggeremo per quello del regno di Sicilia!
Altre grida di approvazione risonarono per l’aria. Un frate che fino a quel momento era stato ad ascoltare, levò in alto le mani, e con voce potente, dominando il tumulto, esclamò:
- Ha ragione, nessun deputato per Napoli! Vogliamo l’indipendenza! Figliuoli miei, giuriamo! Giuriamo di essere costanti e forti; o indipendenza, o morte!
Queste parole parvero un motto, un’impresa, un vessillo; nel loro ritmo poetico esprimevano il pensiero e il sentimento comune; la folla le ripetè, le fece sue, le adottò come grido di guerra. Alzando la mano, come per chiamare Dio in testimonio, gridò: 
- Viva fra Gioacchino! viva!... O indipendenza o morte!
Questo giuramento, in quell’ora, fra le lampade che splendevano nei balconi, sulle piramidi, sugli archi, aveva qualcosa di grande e di suggestivo; si ripercosse, volò, si diffuse; agitò gli animi, sollevò entusiasmi e ardori guerreschi. 



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