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giovedì 22 ottobre 2020

Vincenzo Linares: Cosa non si disse all'estero? Tratto da: Maria e Giorgio o Il Cholera in Palermo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1837 devastata dal Cholera

Quando queste cose fra noi avvenivano, ne correva la voce all’estero ben varia e diversa. Qua si soffriva, si piangeva, si moriva, colà si creavano le più strane fantasie: qua un’orribile tragedia, colà una ridicola farsa. Si narrarono cose orrende, si dipinse Palermo in preda alle stragi, alle rapine, agl’incendi, preda di una plebe insolente. Ministri della fama furono i giornali d’oltremonte, e la fama colle sue mila trombe ne sparse la voce dovunque. 
Nel secolo di Victor Hugo ogni talento è una fantasia, ogni scrittore un romantico: nè c’era miglior soggetto di questo in un tempo in cui il brutto e il grottesco son di moda, e le scritture riboccano di boia, di veleni e di mannaie. Mano dunque alla penna, anzi a cento penne; mano alla descrizione, in cui il secol nostro è così inventivo e prodigioso. Quindi il dramma, il romanzo o la tragedia (come volete chiamarlo) divenne più vivo e animato: Palermo teatro di orrende scene: le strade insanguinate, le case incendiate, le teste de’ medici galleggianti pel mare, perché ogni dramma dee aver le sue teste: quindi il Capo del Governo trucidato, perché una catastrofe al dramma era pur necessaria. 
Tutto fu raccolto con estrema pazienza ciò che si era detto e non detto, ciò ch’era avvenuto e non avvenuto: ci furon morti, ci furon stragi, ci furon veleni, ci fu ancora la chiesetta (idea romantica!) dove si erano riuniti gli assassini al modo dell’ultimo canto della Gerusalemme, e dove fu accanito  il combattimento, e decisiva la vittoria pei soldati, quei soldati che grazie a Dio non ebbero qui fra noi occasione di tirare una fucilata. 
Ma chi pensava allora tra noi a sì strani aborti di fantasia? Chi dolevasi di tante calunnie? Anzi che sdegno quell’effetto produssero che suole la vista di una ridicola farsa; e se ripetevansi egli era fra le risa e il contento; sì fra le risa e il contento, che già cessava il divino flagello. Agosto sorgeva con più lieti auspici. 
Tanto avea fatto un mese di sventura, tanti affetti destati, tanti odî sbanditi; un mese era per noi un secolo, ma un secolo di pene e di sventure. Trentamila uomini eran caduti, il fior della bellezza, il fior delle lettere e delle scienze: Scinà, quel sole della nostra letteratura, Bivona il botanico, Palmeri lo storico-economista, Foderà il nostro Cuiacio, Greco il medico, Tranchina lo scopritore del nuovo sistema d’imbalsamazione, Costantini il poeta, Pisani, Di Giovanni, Riolo, ed altri tutti onore e decoro di questa nostra patria. 

Vincenzo Linares: Maria e Giorgio o Il Cholera in Palermo.
Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo devastata dal Cholera del 1837.
Il volume è la fedele trascrizione dell'opera originale pubblicata nel 1838 dalla Tipografia Francesco Lao. Postfazione del dott. Rosario Atria, cultore di Letteratura italiana nell'Università degli studi di Palermo.
Prezzo di copertina € 16,00
Copertina di
Niccolò Pizzorno
.
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito ibuonicuginieditori.it (spedizioni in tutta Italia)
Disponibile su Ibs, Amazon e tutti i siti vendita on line.
In libreria presso La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133, Palermo)

Vincenzo Linares: Il timor panico. Tratto da: Maria e Giorgio o Il Cholera in Palermo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo devastata dal Cholera del 1837

Il popolo, come vi ho detto, da che si sparse la nuova fatale fece orecchie da mercante, rimase incredulo alle buone ragioni, ai buoni consigli; emise anzi la sua sentenza: non esservi cholera. Ad accreditar la quale assai valse l’incertezza de’ medici, lo sfrenato gridare di alcuni anche fra loro, che gli era un mezzo di far danaro. Il sospetto corso di bocca in bocca, agitato e discusso in varii crocchi divenne una certezza: nè giovò a distruggerlo il fatto stesso, i cadaveri che passavano per le strade, lo sperpero generale, la morte d’illustri vittime. Fermo nel suo proposito spregiava la presenza del morbo, mangiava, beveva, rideva gridando:
- Vedete come si cura il cholera! 
Io potrei contarvi più d’un fatto funesto, che seguì questa insana aberrazione di mente, ma allora dicevasi “È morto del vino, dello stravizzo.” Bel modo in vero di ragionare, che persuadendo gli eccessi trovava negli eccessi la causa del funesto avvenimento. La quale incredulità accrescendo la crapula non poco forse contribuì all’aumento del morbo. E questo era il minor male, perché in sostanza non si possono obbligare gli altri a pensare come volete; e se male faceano, lo faceano per sè stessi: il peggio fu che non si contennero allo stravizzo, ma scoppiarono in odio ed in sarcasmi contro i medici.
- Vedete questi dottori; ora vi danno un rimedio, ora un altro; ora c’è cholera, ora non c’è cholera; oggi è epidemico, domani è contagioso. Eh! gatta ci cova! Vogliono malattie, vogliono ospedali, chi sa che cosa essi vogliono! 
Il morbo intanto, sebbene lentamente, cresceva e con lui altri mali non meno funesti. Tutto ad un tratto cessò il lavoro, cessò il commercio, l’annona rincarì, il monopolio fu nelle piazze: il popolo si vide privo di mezzi e di soccorsi. Quinci doglianze, quinci sinistri augurî e voci di spavento. Il popolo pria dominato da un cieco scetticismo, poi atterrito dalla miseria si diede in braccio a terrori di fantasia, al che contribuirono non poco le circostanze! Un teschio fu trovato nel cancello del Duomo, varii cartelli minaccevoli per le mura; qualcuno insolentiva per forza togliendo il pane ai venditori, di che la fama pel momento magnificava la violenza ed il numero: le quali cose operate da pochi, che volean pescare nel torbido, lungi d’incitare atterrivano. Nulla veramente di reo si macchinava, come il fatto istesso ha dimostrato, nulla era di positivo tranne il timore del disordine. 
I magistrati della città, i sanitarî e la pubblica forza operavano dal canto loro con quella prudenza che i tempi volevano. Si chiudevano le case degli appestati, si portavano a lazzeretto le persone sospette, si promuoveva per quanto era possibile la salubrità e l’abbondanza delle vettovaglie: l’annona rincarita fu in sulle prime moderata, finchè diffuso poi il morbo, ruppe ogni freno l’ingordigia dei venditori: si profumavano le piazze e i luoghi immondi; si pubblicavano avvisi prescriventi un metodo più esatto di vita e misure di cautela. Fu raddoppiata la vigilanza, raddoppiata la pubblica forza, richiamata dalle provincie buona mano di soldati d’arme, gente di mal affare arrestata; punito solennemente quel solo che avea dato il mal esempio di rubare il pane nella piazza, con pronta pena se non approvata dal buon senso, certo dalle circostanze che erano difficili: le feste che chiamano folla di popolo proibite pel doppio oggetto della pubblica salute e della tranquillità pubblica: furon cacciati via i legni venuti da Napoli, ancorati al nostro porto. Le quali saggie e prudenti misure impedirono disoneste voglie e disordini; ma non bastarono a togliere l’agitazione degli animi che cresceva collo scorrer de’ giorni. 
Ecco gli eccessi del popolo; poco avanti non badava ad un male presente, ora tremava di un pericolo futuro. Col cadere del giorno ventitrè parvero avverarsi i sinistri augurj. Come, quando e da chi, s’ignora; certo sorse una gran voce di scoppiato tumulto, sorse a un punto dall’uno all’altro lato della città. Quanti erano per le strade correvano a tutta furia, gridavano a piena gola, fuggivano come se la città fosse posta a ferro ed a fuoco. Invano gridavasi “è nulla è nulla” invano la pubblica forza sboccando da tutti i lati fermava i fuggenti, cercava di rianimare gli animi atterriti: fu generale il trambusto. 
La pressa maggiore era, appunto, nel luogo ove si trovavano i nostri personaggi: ei si videro urtati e assordati da una moltitudine di persone, che scompigliata si aggirava per la chiesa. Ognuno faceasi avanti per gittarsi alla porta; qua peggio: gente di fuori, gente di dentro, quella irrompeva, questa lanciavasi, e nell’urto accresceva il terrore e lo scompiglio. Don Bartolo fu sbattuto sopra una panca, Pasquale trasportato dalla folla venne a rotolarsi nella gradinata della chiesa; solo rimasero avanti il prete, che avea avuto la forza di resistere a tanta furia, la fanciulla tenendosi stretta alle sue ginocchia, e un giovane che in atto rispettoso le stava allato. Il prete credendo che ei fossero i fidanzati:
- Non è tempo di nozze!  – lor disse e andò via frettoloso. Maria alzò la testa, guardò il giovine che le era allato, e quasi dubitando della sua vista gli chiese:
- Sei tu, Giorgio?

Vincenzo Linares: Maria e Giorgio o Il Cholera in Palermo. 
Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo devastata dal Cholera del 1837. 
Il volume è la fedele trascrizione dell'opera originale pubblicata nel 1838 dalla Tipografia Francesco Lao. Postfazione del dott. Rosario Atria, cultore di Letteratura italiana nell'Università degli studi di Palermo. 
Prezzo di copertina € 16,00
Copertina di Niccolò Pizzorno.
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito ibuonicuginieditori.it (spedizioni in tutta Italia)
Disponibile su Ibs, Amazon e tutti i siti vendita on line.
In libreria presso La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133, Palermo)

Espulsa... tratto da: La civile indifferenza. Le parole di Liliana Segre fedelmente raccolte e trascritte dalle sue testimonianze.

Arrivò come uno Tsunami, oggi si direbbe, un temporale violentissimo, lo snocciolarsi di quelle prime avvisaglie, come quando sta per venire un temporale e ci sono i tuoni lontani, i lampi... ma speriamo che forse non avverrà, non pioverà qui... le avvisaglie di un antisemitismo che non si era sentito prima in Italia, non si era recepito assolutamente.
Ed era la fine dell’estate del 1938 quando mio papà cercò di spiegarmi che non potevo fare la terza elementare in via Ruffini, perchè per le leggi razziali fasciste, vergognose, avevamo perso i diritti civili. E fra le leggi razziali c’era il divieto di andare a scuola. 
Mi sentii dire quindi con voce rotta, con voce emozionata, umiliata, da mio papà che io, come tutti i bambini ebrei, tutti gli studenti ebrei delle scuole pubbliche d’Italia, ero stata espulsa. 
Espulsa... 
Voi ragazzi sapete bene che cosa vuol dire essere espulsi da una scuola, alle elementari poi non ne parliamo. Bisogna aver fatto davvero  qualche cosa di molto molto grave nell’ambito scolastico. 
E io, che andavo a scuola con gioia, mi sentii dire mentre eravamo a tavola e c’erano tutti e due i miei nonni:
«Sei stata espulsa dalla scuola perché noi siamo ebrei.»
Fu veramente un colpo gravissimo. Io subito chiesi: 
«Ma perché? Che cosa ho fatto?»
Era un momento tremendo, era soprattutto l’espressione di queste tre persone, che mi guardavano con grande pena, con grande preoccupazione per me. 
Era amore, amore e disperazione. 
Da quel momento cominciai a chiedere a tutti ma perché? perché? perché? perché? Ed ero ossessiva con questo perché, al quale a quel tempo era molto difficile dare una risposta. Soprattutto perchè ai bambini, allora non si parlava così chiaramente come si parla adesso, si cercava di tenerli separati, protetti dalle brutture della vita. 
E quel perché mi ha seguita poi mille volte: ma perché, perché, perché, perchè, perché io non posso più andare a scuola? Perché sono stata espulsa?
Era la colpa di essere nata. 
Era incredibile. 
Espulsi furono tutti gli ebrei dalle cariche pubbliche, insegnanti, professionisti, persone che avevano qualche grado nell’esercito, che lavoravano nei Ministeri. Perfino i libri adottati nelle scuole di colti professori ebrei furono cancellati, furono tolti dalle biblioteche comunali, furono tolti dai programmi scolastici. 
Le leggi razziali furono infinite, lunghissime, e andavano dalla impossibilità di tenere piccioni, di vendere stracci se non di lana a quella di non poter fare l’orefice, il bidello. 
Qualunque cosa era vietata. 
La fantasia di chi le redasse fu così sfrenata, che era veramente difficile trovare una branca qualsiasi in cui fosse possibile stare. 
Si veniva cancellati dagli elenchi del telefono, si veniva cancellati dagli albi professionali, si diventava di colpo cittadini di serie B per poi pian piano...
Mi ricordo che una volta venne a casa la maestra, la mia maestra di prima e seconda elementare, ma non per trovare me, semplicemente perché l’aveva convocata mio papà che le aveva chiesto: 
«Venga a casa a trovare la mia bambina, provi a dirle lei una parola di conforto...»
Lei venne a casa, non mi abbracciò. La sentii che diceva: 
«Io cosa c’entro? Non è mica colpa mia, non le ho fatte io le leggi razziali!»
E quello fu l’inizio dell’indifferenza, di quel «Se una cosa non mi riguarda e riguarda l’altro, non me ne importa niente.»
Cambiai scuola e andai in un istituto privato  che mi accettò. 
Andando lì, passavo dalla mia vecchia scuola. 
Di tutte le bambine furono solo tre indimenticabili, che continuarono ad aprirmi la loro casa alle piccole feste, agli incontri per giocare, che mi telefonarono... 
Tutte le altre sparirono nell’indifferenza. 
Era molto dura passare da lì e vedere questi gruppetti di bambine che mi segnavano col dito e dicevano: 
«Quella lì è la Segre, non può più venire a scuola perché è ebrea...» 
Sono sicura che non sapessero che cosa significa essere ebree. 
I banchi vuoti dei bambini espulsi non fecero sensazione.
Cancellati nell’indifferenza generale.

La civile indifferenza. Le parole di Liliana Segre fedelmente raccolte e trascritte dalle sue testimonianze a cura de I Buoni Cugini editori. 
Segue, in appendice, il testo delle leggi razziali del 5 settembre 1938 e seguenti con le foto dei giornali dell'epoca.
Pagine 176 - Prezzo di copertina € 13,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (spedizione in tutta Italia)
Disponibile su Ibs, Amazon e tutti i siti vendita on line. 

lunedì 19 ottobre 2020

Vincenzo Linares: La civiltà. Tratto da: Il Cholera in Palermo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1837 devastata dal cholera.

Poco dopo all’uscire dal giardino mi fu nota la cagione di quel bisbiglio, di quello spavento. Era il sette giugno, e il formidabile malore, che da venti anni percorre l’Europa, scoppiava inopinatamente a disertare la bella Palermo. Due miserabili marinari (Angelo Tagliavia e Salvadore Mancini) giacevano i primi sul letto di morte: il perché lo spavento e il bisbiglio prendevano un carattere più generale ed aperto a misura ch’io mi veniva raccostando alla città. La folla si avviava al quartiere della Kalsa; colà si alzavano profumi, si affaccendavano colà guardie, soldati, medici, magistrati, e un codazzo di popolo più incredulo che atterrito dal presente pericolo.
- Son morti di cholera!
- Di cholera?
- Ma che cholera!
- Son vivi!
- Dagli a bere un bicchieretto di quello... eh! staran bene!
- Gli ammazzano con quei profumi, gli ammazzano! 
Queste cose e molte altre correvano per le bocche di coloro che stavano lontani dalla scena; gli altri, che erano nella strada, si affollavano alla porta della casa senza cautela, senza cautela entravano dove giaceva uno degl’infelici già fatto cadavere, ne toccavano le vesti ed anche il corpo; e non vedendo i terribili segni indicati da’ medici, nè uscirne cosa che potesse al momento farli pentire dell’atto sconsigliato, scoppiavano in iscrosci di risa. Alcuni si affrettavano temendo la burrasca di trasportar casse, mobili, tavole e che so io. 
- Ohè largo!
- Il medico, il medico! 
Tutti voltarono gli occhi alla porta, tutti si fecero da canto: entrò il medico, anzi non entrò, restossi avanti la porta a dieci palmi (misura legale!) del cadavere, fissò gli occhi spalancati sul letto di morte, guardò meglio con la lente per due minuti, fece una contorsione di labbra, gittò un largo fiato dal naso, si pose un fazzoletto alla bocca, e via. La qual cosa fu motivo di risa e di spavento nella folla. 
- Vedesti? gli è fuggito! 
- Dunque è cholera!
- Non conosciamo meglio de’ medici che cosa sa fare il vino?
- Effetto di bettola!
- Effetto di vino! 
La strada intanto fu cinta di guardie, chi era dentro restò dentro, uomini, donne, vecchi, giovani, novanta circa, la gente di fuori in parte si disperse, in parte restò con animo di vederne la fine. I magistrati davano forti provvedimenti, una commissione medica si preparava a fare la sezione de’ cadaveri. Furono questi portati di notte al Lazzeretto e distesi sopra uno scoglio. La commissione a dieci palmi di distanza (misura legale!) osservò i cadaveri con cannocchiali e con lenti, un chirurgo li tagliò non per amore dell’arte ma pel caro suono di trecento ducati. Fu deciso ch’eran forti i sospetti del cholera. 
Quando la nuova se ne diffondeva per la città, e più certa giorni dopo per altri casi avvenuti, furon varii i pareri quanto gli uomini, varie le voci quanto le lingue; chiudevansi le porte dell’Università; disertavansi i collegi, i licei, le scuole; non echeggiavano più di bei concerti le volte del Carolino. Oh come cangiò ad un tratto l’aspetto della città! Come sparirono e i volti ridenti, e il romore de’ cocchi, e l’allegra veduta del Foro borbonico! L’infernale parola girava per tutte le bocche, risuonava per tutte le orecchie, prendeva tutti gli aspetti fra i fantasmi del timore, fra i motteggi, fra gli scherzi, fra le dispute solenni. E in mezzo a tante diverse passioni il volgo incredulo sprezzava i fantasmi e i timori.
- Effetto della crapula! – gridava, – effetto del vino! 
V’era qualcuno più saggio che diceva come ora scrivo;
- Effetto di civiltà! 
La città intanto dopo il primo spavento erasi abbandonata a belle illusioni per la tregua che seguì il caso fatale. Sei giorni interi eran passati senz’altri accidenti, già tornava la calma, si rideva del temuto pericolo, e si rianimavano le sale ed i passeggi. Ma la subita morte del medico Angileri fè svanire ogni mal concepita speranza, e il giorno medesimo e quelli appresso altri casi avvennero che non fecero più dubitare della temuta calamità. La certezza sconvolse allora le menti, e si pensò solo a mezzi di salvezza e di cautela, e tutti si provvedevano di medicine, e tutti raccoglievano vettovaglie, e folle di persone popolavano le campagne, e i villaggi vicini; i ricchi si barricavano come in castelli; i provinciali salvavansi ne’ loro nativi paesi, e carri senza fine trasportavano robe e masserizie, e carrozze e cavalli partivan volando per ogni punto, e per le strade, nelle campagne, nelle case, ne’ monasteri, nei conventi, dovunque era un andare, un venire, un chiedere, un temere, un dolersi, uno sgombrar di persone, un iscansare il contatto, un fuggire. E il volgo incredulo spregiava solo i timori ed i pericoli, e i saggi ripetevano: Ecco gli effetti della civiltà. 


Vincenzo Linares: Maria e Giorgio o Il Cholera in Palermo. 
Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo devastata dal Cholera del 1837. Il volume è la fedele riproduzione dell'opera originale pubblicata nel 1838 dalla tipografia Francesco Lao. 
Postfazione del dott. Rosario Atria, cultore di Letteratura italiana nell’Università degli Studi di Palermo.
Copertina di Niccolò Pizzorno.
Pagine 163 - Prezzo di copertina € 16,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (spedizioni in tutta Italia € 2,90) 
Disponibile su Ibs, Amazon e tutti i siti vendita online. 
In libreria presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133 - Palermo)



martedì 25 agosto 2020

Giambi Leone: Il gabbiano. Tratto da: Il morso del cane.

Non ricordo che giorno fosse. Un’estate impietosa aveva carbonizzato la pelle e asciugato i polmoni degli operai delle Autostrade. Di certo non era un giorno fresco e non induceva a credere che la calura stesse volgendo al termine. La strada correva sempre più violenta sotto le gomme della mia auto. Anche quel mese sarebbero stati almeno quattromila i chilometri che avrei percorso. Conoscevo ogni buca, ogni irregolarità, ogni piccola depressione di quel manto autostradale, gli alberi e ogni linea di quel paesaggio che, mutando lentamente aspetto insieme alla diversa posizione del sole, all’ora del giorno e alla stagione, finiva per ripetersi sempre uguale, sotto il mio sguardo programmato ma vigile. 
Una vecchia Mercedes Benz 240 giallo sabbia con il tetto stracolmo di tappeti, il cielo tagliato dalla sferzata di una poiana in picchiata, un camion rugginoso carico d’uva che aspergeva residui odoranti di mosto, due bionde strafiche su una decappottabile nera, lo sborone di turno con il suo Hummer con vetri oscurati... Un film visto e rivisto. Tutto normale. Un cliché dal gusto sfumatamente onirico.
La mia auto procedeva a memoria, né troppo lenta né troppo veloce, carica di me e dei soliti flussi inesauribili di pensieri, a cornice di quel quadro.  Solita vita. Solito me. Solito tutto. Cafoni agli sportelli degli uffici pubblici. Bollette da pagare. Cartelle esattoriali buttate in un cassetto con cosciente disattenzione. Telefonate di creditori scalpitanti con narici sbarrate come tori di Pamplona. Debitori con il cerume nelle orecchie. False promesse. Lavori sottopagati. Multe elevate da vigili urbani che si accanivano sugli automobilisti. Discussioni e litigi inutili, in quella che mi ostinavo a chiamare famiglia, sempre e solo per soldi e altre rotture di cazzo, prevedibili, normali, mal gestite. Ogni cosa, ogni giorno. Ogni santo maledetto giorno, condito dalla consueta nausea esistenziale, in altre parole, quella spia rosso fuoco sempre accesa, quel triangolo lampeggiante nel cruscotto neuronale, sempre allerta e sempre proclive a frantumare quell’esile attaccamento al reale condiviso, sempre tesa a farmi vivere ogni istante, bello o brutto, con la gioia e la serenità d’animo di chi riceve gratuitamente pedate nei coglioni, di quelle ben assestate. Cataste deformi di pensieri noir instabili, controllati a fatica e con sapienza repressi, uccisi e tenuti sotto sale perché impossibili da condividere con altri umani. Sensazioni di inadeguatezza sociale e psichica dal putrido odore di morte, al limite dello svenimento...

Giambi Leone: Il morso del cane. Collana Albatro Randagio.
Pagine 230 - Prezzo di copertina € 18,00
Disponibile a Palermo presso La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour), La Nuova Bancarella (di fronte La Feltrinelli), Libreria Sciuti (Via Sciuti 91/f)
Disponibile a Castellammare presso Libreria D'Angelo, Corso Garibaldi.
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
Disponibile su lafeltrinelli.it, Amazon (presso il venditore I Buoni Cugini) e tutti i siti vendita online.  

sabato 1 agosto 2020

Nino Parrucca: L'arte della ceramica. Creare e decorare dall'argilla al prodotto finito. Collana Eccellenze siciliane.


I Buoni Cugini editori aprono una nuova collana dedicata alle Eccellenze Siciliane, ovvero a tutti quei personaggi siciliani che della loro arte hanno fatto un'Eccellenza
Ad aprire la Collana è Nino Parrucca, che della sua Ceramica ha fatto una Eccellenza siciliana famosa in tutto il mondo: L'Arte della Ceramica, è il manuale scritto dal famoso ceramista che svelerà anche nel dettaglio tutti i piccoli segreti delle sue creazioni. 

"Scopo di questo manuale è dare i principali fondamenti per la lavorazione della ceramica, le tecniche da impiegare e le loro adeguate applicazioni. 
Il cammino che insieme intraprenderemo ci immergerà nell'affascinante mondo della Natura dove, dall'unione di elementi vitali come l'Acqua, l'Aria, la Terra e il Fuoco, nasce l'informe massa d'argilla e da questa si realizza un manufatto, secondo il disegno della nostra mente e l'estro creativo, perchè le nostre mani possono dar vita a quelle meravigliose creazioni che di solito attraggono l'ammirazione di tutti.
Nino Parrucca

Tutte le foto del manuale che illustrano nelle varie fasi la lavorazione della ceramica, sono di Ivo Ginevra. 
Il manuale è al momento disponibile al catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it, su Amazon Prime al venditore I Buoni Cugini e in tutti i siti vendita online.
Al rientro delle ferie di agosto sarà fatta la presentazione ufficiale del libro e ve ne daremo comunicazione. 


Giambi Leone: Il morso del cane. Il nuovo romanzo della collana Albatro Randagio edita I Buoni Cugini editori

Dopo "Il bar delle voci rubate" di Remo Bassini, un nuovo volume si aggiunge alla collana Albatro Randagio edita I Buoni Cugini editori: "Il morso del cane" di Giambi Leone, autore esordiente. 
Un miracolo balistico, una pennellata d’arte e la natura, fendendo il cielo, spezza un tempo che si ripete sempre uguale. Un cane, una profezia che affonda le radici nella storia, un colpo di fulmine tra un uomo e una donna, un padre nuovo e un padre ambiguo, innescano un processo di cambiamento che romperà uno schema di pensiero rigido. Fughe rocambolesche, colpi di scena e riflessioni filosofiche condite con una spolverata d’ironia, fanno de Il Morso del Cane un romanzo difficile da collocare in un preciso genere letterario, perché c’è molto noir, pulp, thriller, saggistica, sentimental e tanto altro da trovare al giorno d’oggi e in un romanzo d’esordio per giunta!
Ecco! Questo capitò quel giorno. Ci pensò madre natura. “Ma… puttana la miseria!”. Fu la mia prima espressione, fredda, tra il rassegnato e il compiaciuto, dopo la constatazione che un grosso gabbiano aveva centrato, ovviamente al volo, il parabrezza della mia auto con una defecata da urlo che mi costrinse a sterzare verso la corsia d’emergenza e a fermarmi, cieco.
L'accattivante copertina è di Giambi Leone, con elaborazione grafica di Maria Squatrito. 
Pagine 225 - Prezzo di copertina € 18,00
Disponibile al sito www.ibuonicuginieditori.it, su Amazon e tutti i siti vendita on line.
Prossimamente in libreria. 

lunedì 15 giugno 2020

Antonino Cutrera: 3 marzo 1698... - Cronologia dei Giustiziati di Palermo 1541-1819

Nel piano della Marina, per sentenza della R.G.C. fu strozzato ad un palo Filippo Crisafulli, alias Scarpello da Casalvecchio, discorsore di campagna, stradario e capo di banditi. 

Annotazione originale alla sopradetta esecuzione capitale: 
"Nota che questo poveretto aveva rotti un braccio, ed una coscia, e non poteva prevalersi a caminare, talmenteche fu di bisogno metterlo nella sedia con l'aste, a questo effetto tenuta nella Cappella, e salì la scala portato a medesima a braccio dei Fratelli e nella Cappella stava sempre a sedere nella istessa sedia, e nell'entrare e nell'uscire dal dammuso sempre si portava da Fratelli per l'aste, onde per tal causa era impossibilitato a salire la scala delle forche, sicchè si fece istanza al sig. Presidente della G.C. che si portasse con l'istessa sedia, nel Carrozzone, e che in luogo di appicarsi si eseguisse la sentenza ad un palo, che il sig. Presidente ebbe grandissime difficoltà per essere morte assai tormentosa, alla fine conoscendo l'inabilità si rimise alla Compagnia, e così si diede ordine d'accomodarsi un palo sotto le forche, e si fece abbassare l'affitto con la medesima sedia portato da' Fratelli per l'aste sino all'entrata della Cappella, e doppo preso da Bastati si pose con la medesima sedia nel Carrozzone, conducendosi per la solita strada fino al piano della Marina, dove arrivati, con la medesima sedia, si strozzò al palo". 

Antonino Cutrera: Cronologia del giustiziati di Palermo, 1541-1819
Il mirabile lavoro di Antonino Cutrera fatto sui documenti della Compagnia dei Bianchi è anche integrato con note del Mongitore, Villabianca, Auria, Pirri, Paruta, Di Marzo, Zamparrone, La Mantia ed altri ancora e costituisce un completo e fedele studio dei secoli bui della giustizia terrena a Palermo. 
Pagine 384 - prezzo di copertina € 22,00
Collana RisorgimentaliA
Disponibile al sito www.ibuonicuginieditori.it, lafeltrinelli.it, Amazon Prime e tutti i siti vendita online.
In libreria presso La Feltrinelli libri e musica (Palermo)

Antonino Cutrera: 1578, 18 agosto. Cronologia dei giustiziati di Palermo 1541-1819

Nel piano della Marina, per sentenza della R. Corte Capitaniale furono giustiziati: Pietro Gargotta e Abbattista Gerbino. Il primo per avere stuprato e conosciuto carnalmente a sua figlia, fu condotto al supplizio, nudo, sopra un carro, tenagliato durante il tragitto, infine strozzato. Il Gambino fu impiccato per avere ucciso entro la chiesa di S. Sebastiano un genovese. 

Antonino Cutrera: Cronologia del giustiziati di Palermo, 1541-1819
Il mirabile lavoro di Antonino Cutrera fatto sui documenti della Compagnia dei Bianchi è anche integrato con note del Mongitore, Villabianca, Auria, Pirri, Paruta, Di Marzo, Zamparrone, La Mantia ed altri ancora e costituisce un completo e fedele studio dei secoli bui della giustizia terrena a Palermo. 
Pagine 384 - prezzo di copertina € 22,00
Collana RisorgimentaliA
Disponibile al sito www.ibuonicuginieditori.it, lafeltrinelli.it, Amazon Prime e tutti i siti vendita online.
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mercoledì 3 giugno 2020

Antonino Cutrera: Cronologia dei giustiziati di Palermo 1541-1819

Al nostro lavoro sulla Cronologia dei Giustiziati in Palermo, si connette intimamente la storia della Compagnia dei Bianchi, perchè senza l'esistenza e l'opera di tale confraternita religiosa, oggi non ci sarebbe possibile di fare la presente pubblicazione. Per tal motivo, nella prima parte di essa comprendiamo, come meglio abbiamo potuto, le sue vicende, il suo ordinamento e l'opera, per la quale potè vivere circa trecento anni. 
La famosa Compagnia del Santissimo Crocifisso, detta dei Bianchi, si assunse la pietosa missione di assistere quegl'infelici che, allora in gran numero, venivano condannati dalla giustizia degli uomini e in nome di Dio, a lasciare la vita sul patibolo. 
Grazie alla cortese ed efficace cooperazione dell'egregio cav. Eduardo Rivarola, attuale Governatore della Compagnia dei Bianci, senza la quale questo lavoro non potrebbe essere stato compiuto e agli studiosi, oggi, non sarebbe dato di poter leggere queste pagine che, nella loro monotona e cronologica dicitura, ci ricordano la lunga serie di scene orrende e di spettacoli infami, che in nome della giustizia si davano al popolo sulle vie e sulle piazze della nostra Palermo. 
Dai documenti pervenuti a noi nelle nostre ricerche per ricostruire la dolorosa e triste odissea di tante vittime dell'umana giustizia, ci è dato poter costatare, che spesso, tanto l'animo di un truce malfattore, tanto quello di una debole donna, colpiti dall'inesorabile giustizia umana, rimanevano talmente scossi, da restare in preda ad una grave grisi morale, che si ripercuoteva tremendamente sul fisico dei condannati. L'emozione della prossima morte nei giustiziandi, fu tale che spesso si avveravano scene disgustose, che avrebbero dovuto commuovere gli animi più duri e non suscettibili di molto turbamento. 
Da questo lavoro abbiamo escluso le esecuzioni capitali, che si fecero per sentenza del Tribunale del Sant'Ufficio, perchè sarebbe stato superfluo, dopo il lavoro del compianto Vito La Mantia. 
Antonino Cutrera

Il mirabile lavoro di Antonino Cutrera fatto sui documenti della Compagnia dei Bianchi è anche integrato con note del Mongitore, Villabianca, Auria, Pirri, Paruta, Di Marzo, Zamparrone, La Mantia ed altri ancora e costituisce un completo e fedele studio dei secoli bui della giustizia terrena a Palermo. 

"1593 a 2 Agosto: Nel piano della Marina, per sentenza della R.G.C. fu giustiziato Blasi Galati "condannato a morte aturale, con che sia portato al luoco della giustizia sopra un carro, et per strada tenagliato, et in detto loco affogato in terra ad un palo, et doppo appiso per un piede alle forche, e finalmente squartato."

giovedì 21 maggio 2020

Salvatore Cuccia: Era la fine del mondo. Un soldato siciliano nella Grande Guerra. Collana Nel Bene e nel Male.


L’opera è costruita e trascritta dalle memorie del soldato Salvatore, che tra il 1968 e il 1972 scrive il suo vissuto da combattente nella Prima Guerra Mondiale, lui che non aveva mai lasciato il piccolo paesino di Villafrati (Pa).
Il titolo del libro nasce dalla ricorrente espressione del soldato Salvatore, “Era la fine del mondo…”, quando narra delle bombe, dei morti, della fame, del freddo…  Interessante la descrizione del suo incontro con il futuro papa Roncalli e con Gabriele D’Annunzio.
Il memoriale è preceduto dalla prefazione del nipote e regista Salvo Cuccia e dalla prefazione di Santo Lombino, direttore artistico del Museo delle Spartenze.
Pagine 104 – Prezzo di copertina € 10,00

Disponibile al sito www.ibuonicuginieditori.it, www.lafeltrinelli.it, Amazon Prime e tutti i siti vendita online.
In libreria presso La Feltrinelli libri e musica (Palermo)

La civile indifferenza. Le parole di Liliana Segre fedelmente raccolte e trascritte dalle sue testimonianze. Collana Nel Bene e nel Male.


Dall’idea di raccogliere e trascrivere le parole di Liliana Segre, testimone della Shoah per farne un volume da proporre soprattutto ai giovani quale preziosa lezione sul valore della vita, nasce la proposta di pubblicazione alla Senatrice, che con nostra gioia ha accettato. Da qui l’ascolto dei diversi incontri da lei fatti con i giovani nelle scuole e la composizione del testo, trascrivendo tutti i passi della sua terribile esperienza, in ordine cronologico, senza per nulla alterare le espressioni chiare e dirette della Senatrice e senza omettere nessuna parola della narrazione, dal momento in cui sono emesse le leggi razziali del 5 settembre 1938 fino alla sua liberazione nell’aprile del 1945. Nella seconda parte del libro “La dichiarazione sulla razza e le leggi razziali del 1938”: il testo delle leggi fasciste emesse il 5 settembre, il 6 ottobre, il 15 novembre, il 17 novembre del 1938 e l’elenco delle successive.
Pagine 172 – Prezzo di copertina € 13,00

Disponibile al sito www.ibuonicuginieditori.it, www.lafeltrinelli.it, su Amazon Prime e tutti i siti vendita online.
In libreria presso La Feltrinelli libri e musica (Palermo)


Giovanni Raffaele: Le torture in Sicilia al tempo dei Borboni. Un periodo di cronaca contemporanea. Collana Nel Bene e nel Male.


L’opera è la fedele trascrizione delle Corrispondenze di un Estratto dell’Unità Politica del 1862, dove Giovanni Raffaele, all’epoca giornalista e patriota (successivamente Membro del Parlamento di Sicilia) dal 1850 al 1860 denunzia alla stampa inglese l’utilizzo sistematico di torture da parte della polizia borbonica, anche mediante la raffinata costruzione di appositi strumenti come la cuffia del silenzio, la muffola, lo strumento angelico. Denunzia anche i “processi farsa” e la successiva  fucilazione del barone Francesco Bentivegna di Corleone e di Salvatore Spinuzza di Cefalù, oltre alle torture ai patrioti della provincia di Palermo: Giuseppe Maggio, Giuseppe Lo Re, Salvatore Bevilacqua, Vincenzo Sapienza, Santi Cefalù e sua figlia, Salvatore Maranto e Antonio Spinuzza, tutti eroi finiti nell’ingiustificato dimenticatoio della collettività.
Pagine 106 – Prezzo di copertina € 11,00

Disponibile al sito www.ibuonicuginieditori.it, www.lafeltrinelli.it, Amazon Prime e tutti i siti vendita online.
In libreria presso La Feltrinelli libri e musica (Palermo)

Luigi Natoli: Ricordi di Clodomiro mio figlio. Collana "Nel Bene e nel Male"


L’opera è la fedele trascrizione del libretto, pubblicato nel 1920 con le Officine Tipografiche Barravecchia e Balestrini.
“Serro nel profondo del cuore l’angoscia, respingo indietro le lagrime che fanno impeto agli occhi, per scrivere della mia creatura.”
Con queste parole cariche di composto dolore paterno, nella prima parte del libro iniziano i ricordi che Luigi Natoli dedica alla memoria del figlio Clodomiro, morto nella primavera del 1917 in un campo addestramento reclute vicino Monfalcone.
Nella seconda parte è il diario di Clodomiro Natoli, brevi righe per ogni giorno, appunti, lettere al padre che evidenziano, in poche parole, la tragedia e lo stretto contatto tra i soldati e la morte nella Prima Guerra mondiale.

Luigi Natoli: Ricordi di Clodomiro mio figlio. 
Pagine 72 - Prezzo di copertina € 10,00
Disponibile al sito www.ibuonicuginieditori.it, www.lafeltrinelli.it, Amazon Prime e tutti i siti vendita online.
In libreria presso La Feltrinelli libri e musica (Palermo)



mercoledì 8 aprile 2020

Vincenzo Linares: La casa maledetta. Tratto da: Maria e Giorgio o Il Cholera in Palermo

- Vedi – rabbiosamente gli diceva una delle vecchie, battendogli la testa con la conocchia – vedi a che hai ridotto quella creatura innocente? – e indicò nell’angolo della stanzuccia un giaciglio donde uscivano de’ sospiri e de’ lamenti, e attorno al quale si affaticava una donna, la giovane appunto che sappiamo, recitando rosarii, e bagnando la bocca del moribondo bambino.
- Dì – continuava la vecchia – che intendevi di fare con quella carta? Dì, figlio del demonio, da chi avesti il veleno?
- Io! veleno! che so io di veleno!
Allora i sospiri e i lamenti raddoppiarono presso il giaciglio, forse perché il bambino lottava con la morte, e la giovane affannata dal dolore, e perduta quasi di speranza si stracciò i capelli.
- Figlio, figlio! – gridando con voce che spezzava il cuore. Le sue strida furono interrotte da non so che rumore.
Era una sera di luglio, un vento caldo e diabolico facea saltar per aria le tegole della casuccia, e piegare sino a terra le alte cime degli ulivi che la circondavano. Si vedevano pei campi grandi fiamme, da cui usciva un fumo denso di zolfo e di pece, e a quando a quando sentivasi lo scricchiolare delle ruote di qualche funebre carro. Invece del russo dello stanco mietitore, e del canto monotono del villanzone rompeva il silenzio della notte lo squillo della campana, che ricordava l’ora di migliaia di uomini.
Le donne furono scosse altra volta dal rumore, origliarono alcun poco, e loro parve udire vicino un calpestìo di persone, e un lontano scalpitar di cavalli. Certo sembrerà strano a chi rifletta lo stato spaventevole che dipingo, trovarsi gente all’aria aperta con quel vento che soffiava.
È da sapersi però che non tutti la pensavano ad un modo. Come vi ho detto una voce circolava nella città, che metteva in forse l’esistenza del morbo, e che poi fu cagione di accreditare nella mente del volgo i più neri sospetti di veleno. Nelle campagne e nei villaggi questa voce correva più aperta: nel volto de’ foresi si leggeva il dispetto, lo sdegno, la minaccia: si adunavano nelle piazze, convenivano nei cimiterj, sparlavano, tumultuavano. Quella sera appunto più gruppi di persone si aggiravano in quei dintorni, e una banda di soldati a cavallo dava loro la caccia.
Subitamente si aprì l’uscio ch’era socchiuso, e comparve un uomo, nel cui abito e nell’aspetto spiccava non so che di bizzarro e di sorprendente. Avea le brache corte di color bruno, strette al di sopra del ginocchio, una pelle nera che gli copriva la gamba e metà del piede, un cinturino a’ fianchi, a cui stava appeso un coltellaccio; in capo un berretto, che gli cascava sulle larghe spalle co’ lunghi e rossi capelli. Il suo viso aveva una tinta bruna, folto di peli, fiero ma bello. Pareva trafelato e sudante dal correre, grondava sangue dal braccio, e da una scalfitura nella fronte. Si piantò innanzi l’uscio come uno spettro, volgendo attorno uno sguardo, in cui scorgevasi l’uomo della sventura: s’arrestò come chi fosse colpito da una rimembranza, e portò una mano alle ciglia per nascondere la vista di quel luogo. Scorsi un quattro minuti l’uomo si fece avanti, pose a un angolo della stanza l’archibugio, e accostò il braccio manco alla lucerna.
- Oh! è nulla! – egli disse tastando una piccola ferita che aveva sul braccio. – Non è questa la casa di Francesco?
Le donne rimaste estatiche non risposero, prendendo un’attitudine disegnata dallo spavento, Giorgio atterrito si strinse ad esse. Un forte sbuffo di vento spense la lucerna, s’udì vicino lo scalpitar de’ cavalli.
- Maledetta casa! – sclamò con voce cupa l’uomo nel riprendere l’archibugio, e uscì dalla porta ripetendo – maledetta casa!
Non appena fu egli uscito, s’udì un gran fischio, più spesso il calpestio delle persone, uno stormire di fronde. I soldati a cavallo fecero un giro attorno della capanna. 

Vincenzo Linares: Maria e Giorgio o Il Cholera in Palermo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1837 devastata dal Cholera. Nella versione originale pubblicata dalla tipografia Francesco Lao nel 1838.
Pagine 163 - Prezzo di copertina € 16,00
Copertina di Niccolò Pizzorno

Vincenzo Linares: Il timor panico. Maria e Giorgio o Il Cholera in Palermo.

Il popolo, come vi ho detto, da che si sparse la nuova fatale fece orecchie da mercante, rimase incredulo alle buone ragioni, ai buoni consigli; emise anzi la sua sentenza: non esservi cholera. Ad accreditar la quale assai valse l’incertezza de’ medici, lo sfrenato gridare di alcuni anche fra loro, che gli era un mezzo di far danaro. Il sospetto corso di bocca in bocca, agitato e discusso in varii crocchi divenne una certezza: nè giovò a distruggerlo il fatto stesso, i cadaveri che passavano per le strade, lo sperpero generale, la morte d’illustri vittime. Fermo nel suo proposito spregiava la presenza del morbo, mangiava, beveva, rideva gridando:
- Vedete come si cura il cholera!
Io potrei contarvi più d’un fatto funesto, che seguì questa insana aberrazione di mente, ma allora dicevasi “È morto del vino, dello stravizzo.” Bel modo in vero di ragionare, che persuadendo gli eccessi trovava negli eccessi la causa del funesto avvenimento. La quale incredulità accrescendo la crapula non poco forse contribuì all’aumento del morbo. E questo era il minor male, perché in sostanza non si possono obbligare gli altri a pensare come volete; e se male faceano, lo faceano per sè stessi: il peggio fu che non si contennero allo stravizzo, ma scoppiarono in odio ed in sarcasmi contro i medici.
- Vedete questi dottori; ora vi danno un rimedio, ora un altro; ora c’è cholera, ora non c’è cholera; oggi è epidemico, domani è contagioso. Eh! gatta ci cova! Vogliono malattie, vogliono ospedali, chi sa che cosa essi vogliono!
Il morbo intanto, sebbene lentamente, cresceva e con lui altri mali non meno funesti. Tutto ad un tratto cessò il lavoro, cessò il commercio, l’annona rincarì, il monopolio fu nelle piazze: il popolo si vide privo di mezzi e di soccorsi. Quinci doglianze, quinci sinistri augurî e voci di spavento. Il popolo pria dominato da un cieco scetticismo, poi atterrito dalla miseria si diede in braccio a terrori di fantasia, al che contribuirono non poco le circostanze! Un teschio fu trovato nel cancello del Duomo, varii cartelli minaccevoli per le mura; qualcuno insolentiva per forza togliendo il pane ai venditori, di che la fama pel momento magnificava la violenza ed il numero: le quali cose operate da pochi, che volean pescare nel torbido, lungi d’incitare atterrivano. Nulla veramente di reo si macchinava, come il fatto istesso ha dimostrato, nulla era di positivo tranne il timore del disordine.
I magistrati della città, i sanitarî e la pubblica forza operavano dal canto loro con quella prudenza che i tempi volevano. Si chiudevano le case degli appestati, si portavano a lazzeretto le persone sospette, si promuoveva per quanto era possibile la salubrità e l’abbondanza delle vettovaglie: l’annona rincarita fu in sulle prime moderata, finchè diffuso poi il morbo, ruppe ogni freno l’ingordigia dei venditori: si profumavano le piazze e i luoghi immondi; si pubblicavano avvisi prescriventi un metodo più esatto di vita e misure di cautela. Fu raddoppiata la vigilanza, raddoppiata la pubblica forza, richiamata dalle provincie buona mano di soldati d’arme, gente di mal affare arrestata; punito solennemente quel solo che avea dato il mal esempio di rubare il pane nella piazza, con pronta pena se non approvata dal buon senso, certo dalle circostanze che erano difficili: le feste che chiamano folla di popolo proibite pel doppio oggetto della pubblica salute e della tranquillità pubblica: furon cacciati via i legni venuti da Napoli, ancorati al nostro porto. Le quali saggie e prudenti misure impedirono disoneste voglie e disordini; ma non bastarono a togliere l’agitazione degli animi che cresceva collo scorrer de’ giorni.
Ecco gli eccessi del popolo; poco avanti non badava ad un male presente, ora tremava di un pericolo futuro. Col cadere del giorno ventitrè parvero avverarsi i sinistri augurj. Come, quando e da chi, s’ignora; certo sorse una gran voce di scoppiato tumulto, sorse a un punto dall’uno all’altro lato della città. Quanti erano per le strade correvano a tutta furia, gridavano a piena gola, fuggivano come se la città fosse posta a ferro ed a fuoco. Invano gridavasi “è nulla è nulla” invano la pubblica forza sboccando da tutti i lati fermava i fuggenti, cercava di rianimare gli animi atterriti: fu generale il trambusto.
La pressa maggiore era, appunto, nel luogo ove si trovavano i nostri personaggi: ei si videro urtati e assordati da una moltitudine di persone, che scompigliata si aggirava per la chiesa. Ognuno faceasi avanti per gittarsi alla porta; qua peggio: gente di fuori, gente di dentro, quella irrompeva, questa lanciavasi, e nell’urto accresceva il terrore e lo scompiglio. 


Vincenzo Linares: Maria e Giorgio o Il Cholera in Palermo. 
Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1837 devastata dal Cholera. Nella versione originale pubblicata nel 1838 dalla Tipografia Francesco Lao. 
Pagine 163 - Prezzo di copertina € 16,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
Disponibile su Amazon e tutti i siti vendita online

venerdì 13 marzo 2020

Liliana Segre: La marcia della morte. Tratto da: La civile indifferenza. Le parole di Liliana Segre fedelmente raccolte e trascritte dalle sue testimonianze.

I prigionieri «ancora in piedi» e in vita, uomini e donne, circa 56.000 persone, di colpo, intorno al 20 di gennaio del 1945, senza aver capito che cosa stesse succedendo, furono obbligate tutte a uscire, messe in fila. E cominciò senza nessun preavviso, senza nessuna preparazione, senza nessuna provvista, senza nulla di nulla quella che giustamente si è chiamata la «Marcia della Morte.»
Settecento chilometri a piedi.
Voi pensate queste schiere di 56.000 scheletri.
Di gente che aveva perso già tutto.
Che era prigioniera da un anno come ero io o da più tempo, o qualcuno da poco.
Avviata per chilometri, per mesi, sulle strade prima polacche, poi tedesche, per sfuggire all’Armata Rossa. E i tedeschi non volevano far trovare noi.
Il 27 di gennaio del 1945, giorno della Memoria, io ero una di quelle disgraziate che camminava e che non poteva cadere per terra.
Non potevi appoggiarti a nessuno, e nessuno poteva appoggiarsi a te.
Non si poteva cadere: chi cadeva, in quei sentieri pieni di neve, veniva finito con una fucilata alla testa dalle guardie della scorta che venivano cambiate perché si dovevano riposare.
Nessuno poteva rimanere lì, sulla neve, vivo.
Tornata in Italia, alla fine di agosto del 45, dopo qualche tempo ho cominciato a guardare la carta geografica, perché la mia ignoranza era totale, e non avevo neanche ben capito da Auschwitz   dove ci avessero portato. E quando ho visto che da lì a piedi, in varie marce, siamo arrivati (quelli che sono arrivati vivi) fino al nord della Germania, che avevamo fatto settecento chilometri, beh... una volta di più ho pensato:
«Ma come ha fatto quella Liliana lì, di quattordici anni, compiuti ad Auschwitz da sola?»
Una gamba davanti all’altra.
Una gamba davanti all’altra, una gamba davanti all’altra, una gamba davanti all’altra...
Cammina, cammina, cammina...
Voglio vivere, voglio vivere, voglio vivere...

Ci gettavamo sui letamai, negli immondezzai, mangiavamo qualunque schifezza che avessimo trovato, gli scarti dei civili tedeschi che ci rubavamo una con l’altra, ossa rosicchiate già da un cane, sicure che il giorno dopo avremmo avuto vomito, diarrea... scheletri orribili con le bocche sporche... ma intanto lo stomaco si riempiva e il cervello comandava.
Cammina, cammina, cammina, cammina...
E allora la Marcia della Morte si trasforma in marcia per la Vita.
Voi giovani dovete sempre pensare che la vostra marcia deve esser sempre una marcia per la vita! Mai buttarla via questa vita! La vita è una cosa importantissima, è una cosa meravigliosa, è una cosa straordinaria perché anche attraverso il dolore, attraverso le esperienze più negative, ti può arrivare alla fine un bambino che ti dice: «Ma tu nonna sei il mio arcobaleno.»

La civile indifferenza. Le parole di Liliana Segre fedelmente raccolte e trascritte dalle sue testimonianze. A cura di Anna Squatrito. In appendice i testi delle leggi razziali dal 5 settembre 1938 e le foto dei giornali dell'epoca. 
Prezzo di copertina € 13,00
Disponibile su Amazon, Ibs, Feltrinelli e tutti i siti vendita online.
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

mercoledì 26 febbraio 2020

La civile indifferenza: Gli ebrei di quel raggio dovevano restare nelle celle...

Gli ebrei di quel raggio dovevano restare nelle celle, ma c’era un orario, verso sera, in cui potevano incontrarsi, ed era terribile.
Una disperazione profonda. Quelli che avevano visto partire un trasporto sapevano già che erano viaggi senza ritorno, alcuni erano completamente disperati, altri credevano in cose non vere. Per esempio mi ricordo che un giorno fecero sposare una ragazza con un ragazzo che non si erano mai visti, perché pareva al padre di questa giovane che le donne sposate fossero più protette dagli eventuali abusi.
Passarono 40 giorni in un alternarsi di speranze e di disperazioni perché un trasporto era già partito e i più saggi dicevano:
«Adesso quando saremo sei o settecento partiremo anche noi.»
Altri dicevano:
 «Ma non è possibile che Mussolini faccia partire dei cittadini italiani, sia pure declassati come siamo noi. Per dove poi? Per la Germania?»
Non si immaginava, non si voleva credere.
Invece un pomeriggio, entrò un tedesco nel raggio e lesse un elenco interminabile di 605 nomi che si dovevano preparare a partire il giorno dopo. Per ignota destinazione.
Lì Rino Ravenna, che con tanta fatica aveva passato la montagna d’inverno, quando sentì il suo nome decise che non lo avrebbe fatto il viaggio. Andò su, all’ultimo piano di quei ballatoi che ora sono stati chiusi, ma che allora distinguevano il carcere di San Vittore, scavalcò e si buttò giù. Morì sul colpo.
Io non avevo mai visto un morto, me lo ricordo così scomposto, e con che fatica mio papà si assunse il compito di andare a dire al fratello Giulio, più vecchio di lui, che non si alzava più da quella branda, che Rino si era suicidato.
Rino aveva scelto lui il suo viaggio.

La civile indifferenza. Le parole di Liliana Segre fedelmente raccolte e trascritte dalle sue testimonianze. A cura di Anna Squatrito.
In appendice i testi delle leggi razziali dal 05 settembre 1938 con le foto dei giornali dell'epoca. 
Pagine 176 - Prezzo di copertina € 13,00
Disponibile presso La Feltrinelli libri e musica
Disponibile online su Amazon, Ibs e tutti i siti vendita.
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it

mercoledì 19 febbraio 2020

Vincenzo Linares: Si narrarono cose orrende... - Tratto da Maria e Giorgio o Il Cholera in Palermo

Quando queste cose fra noi avvenivano, ne correva la voce all’estero ben varia e diversa. Qua si soffriva, si piangeva, si moriva, colà si creavano le più strane fantasie: qua un’orribile tragedia, colà una ridicola farsa. Si narrarono cose orrende, si dipinse Palermo in preda alle stragi, alle rapine, agl’incendi, preda di una plebe insolente. Ministri della fama furono i giornali d’oltremonte, e la fama colle sue mila trombe ne sparse la voce dovunque.
Nel secolo di Victor Hugo ogni talento è una fantasia, ogni scrittore un romantico: nè c’era miglior soggetto di questo in un tempo in cui il brutto e il grottesco son di moda, e le scritture riboccano di boia, di veleni e di mannaie. Mano dunque alla penna, anzi a cento penne; mano alla descrizione, in cui il secol nostro è così inventivo e prodigioso. Quindi il dramma, il romanzo o la tragedia (come volete chiamarlo) divenne più vivo e animato: Palermo teatro di orrende scene: le strade insanguinate, le case incendiate, le teste de’ medici galleggianti pel mare, perché ogni dramma dee aver le sue teste: quindi il Capo del Governo trucidato, perché una catastrofe al dramma era pur necessaria.
Tutto fu raccolto con estrema pazienza ciò che si era detto e non detto, ciò ch’era avvenuto e non avvenuto: ci furon morti, ci furon stragi, ci furon veleni, ci fu ancora la chiesetta (idea romantica!) dove si erano riuniti gli assassini al modo dell’ultimo canto della Gerusalemme, e dove fu accanito  il combattimento, e decisiva la vittoria pei soldati, quei soldati che grazie a Dio non ebbero qui fra noi occasione di tirare una fucilata.
Ma chi pensava allora tra noi a sì strani aborti di fantasia? Chi dolevasi di tante calunnie? Anzi che sdegno quell’effetto produssero che suole la vista di una ridicola farsa; e se ripetevansi egli era fra le risa e il contento; sì fra le risa e il contento, che già cessava il divino flagello. Agosto sorgeva con più lieti auspici. Affacciammo pavidi la testa dai balconi, come le rane di Esopo dopo la caduta del serpente fatale; e vedemmo le botteghe aperte, le piazze animate, le finestre spalancate, le belle testine affacciarsi con occhi sereni e tranquilli. Via i becchini, via i carri, via ogni tristo apparato di morte. 
Tanto avea fatto un mese di sventura, tanti affetti destati, tanti odî sbanditi; un mese era per noi un secolo, ma un secolo di pene e di sventure. Trentamila uomini eran caduti, il fior della bellezza, il fior delle lettere e delle scienze: Scinà, quel sole della nostra letteratura, Bivona il botanico, Palmeri lo storico-economista, Foderà il nostro Cuiacio, Greco il medico, Tranchina lo scopritore del nuovo sistema d’imbalsamazione, Costantini il poeta, Pisani, Di Giovanni, Riolo, ed altri tutti onore e decoro di questa nostra patria.

Vincenzo Linares: Maria e Giorgio o Il Cholera in Palermo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo devastata dal Cholera del 1837.
Nella versione originale pubblicata dalla Tipografia Lao nel 1838
Disponibile presso La Feltrinelli Libri e Musica
Disponibile su Amazon, Ibs e tutti i siti vendita online.
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

Vincenzo Linares: Il timor panico. Tratto da: Maria e Giorgio o Il Cholera in Palermo

Il popolo, come vi ho detto, da che si sparse la nuova fatale fece orecchie da mercante, rimase incredulo alle buone ragioni, ai buoni consigli; emise anzi la sua sentenza: non esservi cholera. Ad accreditar la quale assai valse l’incertezza de’ medici, lo sfrenato gridare di alcuni anche fra loro, che gli era un mezzo di far danaro. Il sospetto corso di bocca in bocca, agitato e discusso in varii crocchi divenne una certezza: nè giovò a distruggerlo il fatto stesso, i cadaveri che passavano per le strade, lo sperpero generale, la morte d’illustri vittime. Fermo nel suo proposito spregiava la presenza del morbo, mangiava, beveva, rideva gridando:
- Vedete come si cura il cholera!
Io potrei contarvi più d’un fatto funesto, che seguì questa insana aberrazione di mente, ma allora dicevasi “È morto del vino, dello stravizzo.” Bel modo in vero di ragionare, che persuadendo gli eccessi trovava negli eccessi la causa del funesto avvenimento. La quale incredulità accrescendo la crapula non poco forse contribuì all’aumento del morbo. E questo era il minor male, perché in sostanza non si possono obbligare gli altri a pensare come volete; e se male faceano, lo faceano per sè stessi: il peggio fu che non si contennero allo stravizzo, ma scoppiarono in odio ed in sarcasmi contro i medici.
- Vedete questi dottori; ora vi danno un rimedio, ora un altro; ora c’è cholera, ora non c’è cholera; oggi è epidemico, domani è contagioso. Eh! gatta ci cova! Vogliono malattie, vogliono ospedali, chi sa che cosa essi vogliono!
Il morbo intanto, sebbene lentamente, cresceva e con lui altri mali non meno funesti. Tutto ad un tratto cessò il lavoro, cessò il commercio, l’annona rincarì, il monopolio fu nelle piazze: il popolo si vide privo di mezzi e di soccorsi. Quinci doglianze, quinci sinistri augurî e voci di spavento. Il popolo pria dominato da un cieco scetticismo, poi atterrito dalla miseria si diede in braccio a terrori di fantasia, al che contribuirono non poco le circostanze! Un teschio fu trovato nel cancello del Duomo, varii cartelli minaccevoli per le mura; qualcuno insolentiva per forza togliendo il pane ai venditori, di che la fama pel momento magnificava la violenza ed il numero: le quali cose operate da pochi, che volean pescare nel torbido, lungi d’incitare atterrivano. Nulla veramente di reo si macchinava, come il fatto istesso ha dimostrato, nulla era di positivo tranne il timore del disordine.
I magistrati della città, i sanitarî e la pubblica forza operavano dal canto loro con quella prudenza che i tempi volevano. Si chiudevano le case degli appestati, si portavano a lazzeretto le persone sospette, si promuoveva per quanto era possibile la salubrità e l’abbondanza delle vettovaglie: l’annona rincarita fu in sulle prime moderata, finchè diffuso poi il morbo, ruppe ogni freno l’ingordigia dei venditori: si profumavano le piazze e i luoghi immondi; si pubblicavano avvisi prescriventi un metodo più esatto di vita e misure di cautela. Fu raddoppiata la vigilanza, raddoppiata la pubblica forza, richiamata dalle provincie buona mano di soldati d’arme, gente di mal affare arrestata; punito solennemente quel solo che avea dato il mal esempio di rubare il pane nella piazza, con pronta pena se non approvata dal buon senso, certo dalle circostanze che erano difficili: le feste che chiamano folla di popolo proibite pel doppio oggetto della pubblica salute e della tranquillità pubblica: furon cacciati via i legni venuti da Napoli, ancorati al nostro porto. Le quali saggie e prudenti misure impedirono disoneste voglie e disordini; ma non bastarono a togliere l’agitazione degli animi che cresceva collo scorrer de’ giorni.
Ecco gli eccessi del popolo; poco avanti non badava ad un male presente, ora tremava di un pericolo futuro. Col cadere del giorno ventitrè parvero avverarsi i sinistri augurj. Come, quando e da chi, s’ignora; certo sorse una gran voce di scoppiato tumulto, sorse a un punto dall’uno all’altro lato della città. Quanti erano per le strade correvano a tutta furia, gridavano a piena gola, fuggivano come se la città fosse posta a ferro ed a fuoco. Invano gridavasi “è nulla è nulla” invano la pubblica forza sboccando da tutti i lati fermava i fuggenti, cercava di rianimare gli animi atterriti: fu generale il trambusto.
La pressa maggiore era, appunto, nel luogo ove si trovavano i nostri personaggi: ei si videro urtati e assordati da una moltitudine di persone, che scompigliata si aggirava per la chiesa. Ognuno faceasi avanti per gittarsi alla porta; qua peggio: gente di fuori, gente di dentro, quella irrompeva, questa lanciavasi, e nell’urto accresceva il terrore e lo scompiglio. 

Vincenzo Linares: Maria e Giorgio o Il Cholera in Palermo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo devastata dal Cholera del 1837.
Nella versione originale pubblicata dalla Tipografia Lao nel 1838
Pagine 163 - Prezzo di copertina € 16,00
Copertina di Niccolò Pizzorno - Elaborazione grafica: Maria Squatrito 
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Remo Bassini: Sa di antico il mio piccolo bar... tratto da Il bar delle voci rubate

Sa di antico il mio piccolo bar, è sotto i vecchi portici, nel cuore di questo paese, proprio vicino alla grande piazza dove si svolgono i comizi, si va al mercato oppure in Municipio, dove gli operai salgono sull’autobus che li porta nella zona industriale e dove la domenica la gente prima va a sentir messa nella maestosa chiesa di Santa Flavia e poi va a comprare i dolci della pasticceria Delrosso.
È un bar d’altri tempi, questo, con qualche trasgressione: un televisore, un telefono a gettoni, un biliardo e un vecchio flipper. Ma il banco è più vecchio di me, i tavoli e le seggiole son tutti di noce.
Per tanti anni mi sono fatto un sedere tanto: barista, cameriere, anche un po’ cuoco e naturalmente cassiere. Sempre solo. Tanto, troppo lavoro al mattino per le prime colazioni degli operai che vanno a lavorare in autobus per le otto, e che hanno fretta di caffè, cappuccini, mentre leggono la Gazzetta dello Sport. Va peggio nel primo pomeriggio, tra l’una e mezza e le due e un quarto. Mentre gli impiegati della banca che c’è qui, all’angolo tra la via principale e la piazza, trangugiano panini e insalate miste arrivano i primi pensionati che in piedi, consumano caffè aspettando che si liberino i tavoli per giocare a scopone tutto il pomeriggio. Tra le due e le due e un quarto vivo quindici minuti d’inferno: gli impiegati vogliono, e in fretta, il conto e il caffè, così possono sgranchirsi le gambe prima di rientrare in banca. E i pensionati, per lo più ex operai ed ex muratori, che non hanno simpatie per quei bancari vestiti bene e che masticano con la bocca chiusa, pretendono anche loro un trattamento veloce: vivono di ricordi, di partite a carte, di chiacchiere e tanta noia, ma non hanno tempo di aspettare. E, appena entrati, alcuni (diciamo i più) hanno un modo tutto loro di salutare: indicandomi la macchina del caffè. Corretti, normali o macchiati, in quel quarto d’ora ne preparo dai quaranta ai settanta, niente male per la cassa.
Ma preferisco la sera: meno incassi, ma perlomeno respiro, perché è la sera che c’è il giro di gente che piace a me.
Di giorno, anche se il lavoro è tanto, io comunque ascolto. Ascolto sempre. Quando mi avvicino ai tavoli per servire, le persone continuano a parlare senza badare a me. Raramente s’interrompono. Pare quasi che le persone siano convinte che io sia sordo, o che a me delle loro storie, delle loro confidenze, anche intime, non importi nulla. La mia riservatezza è un fatto scontato: del resto il paese è piccolo e la gente sa che bado ai fatti miei.
Non è così. Per un certo periodo della mia vita, quando restavo da solo, su un quaderno avevo preso l’abitudine di collezionare le “voci” che più mi colpivano.
Ho iniziato per gioco, per un quaderno a quadretti, con la copertina nera e lucida, nuovo, senza nemmeno un rigo scritto, dimenticato da una ragazzina che non conoscevo e che non avrei più rivista Aveva marinato la scuola, era chiaro. Con lo sguardo rivolto alla porta d’ingresso, aveva trascorso un’ora nel mio bar, col terrore che entrasse qualche viso noto, un parente, un professore.
In quel quaderno, inizialmente, avevo cominciato ad annotare le barzellette più divertenti che ascoltavo: le riscrivevo per non dimenticarle e, all’occorrenza, raccontarle. Ma questo non è mai avvenuto. Passai ad altro.
Volevo vedere se esistono risposte furbe alla domanda che quasi tutti fanno quando si vedono, anche a distanza di poche ore: «Come va?»
Così, nella terza pagina del mio quaderno, in alto e in maiuscolo, ho scritto il titolo: «Come va?»
Sotto, dovevano starci le risposte furbe. Quelle diverse. Fu un tentativo inutile. Feci solo un’indigestione di “Bene grazie”, “Potrebbe andare meglio”, “Facciamola andare”, “Così così”, “Va!”, di “Non c’è male”, “Insomma”, di (tantissimi) “Finché c’è la salute”, di (qualche) “Va di merda.” Era destino che in quella pagina, sotto quel titolo, dovesse restare solo dello spazio bianco. Del resto anch’io una risposta furba non l’ho ancora trovata. Faccio parte della categoria di chi dice “Insomma.” Insomma, fiato sprecato.

Remo Bassini: Il Bar delle voci rubate. Romanzo. 
Pagine 171 - Prezzo di copertina € 16,00
In copertina: Danae e la pioggia d'oro di Lorena Fonsato.
Elaborazione grafica copertina: Maria Squatrito
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