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mercoledì 19 febbraio 2020

Vincenzo Linares: Il timor panico. Tratto da: Maria e Giorgio o Il Cholera in Palermo

Il popolo, come vi ho detto, da che si sparse la nuova fatale fece orecchie da mercante, rimase incredulo alle buone ragioni, ai buoni consigli; emise anzi la sua sentenza: non esservi cholera. Ad accreditar la quale assai valse l’incertezza de’ medici, lo sfrenato gridare di alcuni anche fra loro, che gli era un mezzo di far danaro. Il sospetto corso di bocca in bocca, agitato e discusso in varii crocchi divenne una certezza: nè giovò a distruggerlo il fatto stesso, i cadaveri che passavano per le strade, lo sperpero generale, la morte d’illustri vittime. Fermo nel suo proposito spregiava la presenza del morbo, mangiava, beveva, rideva gridando:
- Vedete come si cura il cholera!
Io potrei contarvi più d’un fatto funesto, che seguì questa insana aberrazione di mente, ma allora dicevasi “È morto del vino, dello stravizzo.” Bel modo in vero di ragionare, che persuadendo gli eccessi trovava negli eccessi la causa del funesto avvenimento. La quale incredulità accrescendo la crapula non poco forse contribuì all’aumento del morbo. E questo era il minor male, perché in sostanza non si possono obbligare gli altri a pensare come volete; e se male faceano, lo faceano per sè stessi: il peggio fu che non si contennero allo stravizzo, ma scoppiarono in odio ed in sarcasmi contro i medici.
- Vedete questi dottori; ora vi danno un rimedio, ora un altro; ora c’è cholera, ora non c’è cholera; oggi è epidemico, domani è contagioso. Eh! gatta ci cova! Vogliono malattie, vogliono ospedali, chi sa che cosa essi vogliono!
Il morbo intanto, sebbene lentamente, cresceva e con lui altri mali non meno funesti. Tutto ad un tratto cessò il lavoro, cessò il commercio, l’annona rincarì, il monopolio fu nelle piazze: il popolo si vide privo di mezzi e di soccorsi. Quinci doglianze, quinci sinistri augurî e voci di spavento. Il popolo pria dominato da un cieco scetticismo, poi atterrito dalla miseria si diede in braccio a terrori di fantasia, al che contribuirono non poco le circostanze! Un teschio fu trovato nel cancello del Duomo, varii cartelli minaccevoli per le mura; qualcuno insolentiva per forza togliendo il pane ai venditori, di che la fama pel momento magnificava la violenza ed il numero: le quali cose operate da pochi, che volean pescare nel torbido, lungi d’incitare atterrivano. Nulla veramente di reo si macchinava, come il fatto istesso ha dimostrato, nulla era di positivo tranne il timore del disordine.
I magistrati della città, i sanitarî e la pubblica forza operavano dal canto loro con quella prudenza che i tempi volevano. Si chiudevano le case degli appestati, si portavano a lazzeretto le persone sospette, si promuoveva per quanto era possibile la salubrità e l’abbondanza delle vettovaglie: l’annona rincarita fu in sulle prime moderata, finchè diffuso poi il morbo, ruppe ogni freno l’ingordigia dei venditori: si profumavano le piazze e i luoghi immondi; si pubblicavano avvisi prescriventi un metodo più esatto di vita e misure di cautela. Fu raddoppiata la vigilanza, raddoppiata la pubblica forza, richiamata dalle provincie buona mano di soldati d’arme, gente di mal affare arrestata; punito solennemente quel solo che avea dato il mal esempio di rubare il pane nella piazza, con pronta pena se non approvata dal buon senso, certo dalle circostanze che erano difficili: le feste che chiamano folla di popolo proibite pel doppio oggetto della pubblica salute e della tranquillità pubblica: furon cacciati via i legni venuti da Napoli, ancorati al nostro porto. Le quali saggie e prudenti misure impedirono disoneste voglie e disordini; ma non bastarono a togliere l’agitazione degli animi che cresceva collo scorrer de’ giorni.
Ecco gli eccessi del popolo; poco avanti non badava ad un male presente, ora tremava di un pericolo futuro. Col cadere del giorno ventitrè parvero avverarsi i sinistri augurj. Come, quando e da chi, s’ignora; certo sorse una gran voce di scoppiato tumulto, sorse a un punto dall’uno all’altro lato della città. Quanti erano per le strade correvano a tutta furia, gridavano a piena gola, fuggivano come se la città fosse posta a ferro ed a fuoco. Invano gridavasi “è nulla è nulla” invano la pubblica forza sboccando da tutti i lati fermava i fuggenti, cercava di rianimare gli animi atterriti: fu generale il trambusto.
La pressa maggiore era, appunto, nel luogo ove si trovavano i nostri personaggi: ei si videro urtati e assordati da una moltitudine di persone, che scompigliata si aggirava per la chiesa. Ognuno faceasi avanti per gittarsi alla porta; qua peggio: gente di fuori, gente di dentro, quella irrompeva, questa lanciavasi, e nell’urto accresceva il terrore e lo scompiglio. 

Vincenzo Linares: Maria e Giorgio o Il Cholera in Palermo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo devastata dal Cholera del 1837.
Nella versione originale pubblicata dalla Tipografia Lao nel 1838
Pagine 163 - Prezzo di copertina € 16,00
Copertina di Niccolò Pizzorno - Elaborazione grafica: Maria Squatrito 
Disponibile presso La Feltrinelli libri e musica
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