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lunedì 11 marzo 2024

Oreste Lo Valvo: La rivolta di Giuseppe D'Alesi. Tratto da: L'ultimo ottocento palermitano. Storie e ricordi di vita vissuta.

Una lapide, che stava sul prospetto della Chiesa della Madonna della Volta, ricordava di essere stato in quei pressi ucciso il Capitano generale del popolo: Giuseppe D’Alesi e precisamente il 22 Agosto 1647.
La Sicilia era sotto il dominio spagnuolo ed a Palermo la grande massa del popolo, tra penurie e carestie subiva l’amara sorte di un governo inetto, affidato ad un vicerè pavido ed incapace, sopraffatto dalla prepotenza boriosa della invadente nobiltà dell’epoca.
A Napoli, per la medesima oppressione, il celebre Masaniello aveva dato, in quell’anno stesso, l’esempio della rivolta.
A Palermo non tardò l’occasione per imitarlo, giacchè mancando il frumento, le forme del pane cominciarono a mancare di peso e a crescere di prezzo.
Nel rione Conceria si organizzò la sommossa e finì per esserne coraggioso dirigente proprio Giuseppe D’Alesi, che pur essendo un tiratore d’oro, abitava fra i conciapelli.
Era quel rione un vero labirinto di vicoli, casette e misteriosi sotterranei, che andavano in ogni senso e che comunicavano per le sottostanti fogne ed acquedotti nei quali immettevansi gli scoli delle varie fabbriche di concia.
Per tale conformazione speciale, il luogo si prestava alle segrete congiure ed agli assembramenti, senza tema di essere scovati dalla polizia e dalle spie del S. Uffizio, che molto coadiuvava il Governo, specie contro i movimenti di carattere politico.
Fu appunto in una bettola presso la Chiesa di S. Antonio che si riunivano il D’Alesi, il console dei conciatori, un pescatore ed altri della plebe, ordendo la sollevazione della città per il 15 Agosto, festa dell’Assunzione, col proposito di assalire il vicerè ed il suo seguito, in occasione della visita che in quel giorno festivo facevasi ai santuari della Madonna, a Maredolce e a Gibilrossa.
Ma la congiura fu scoperta e dall’inquisitore Trasmiera ne venne informato il Vicerè marchese di Los Velez, il quale, dapprima, non diede importanza alla cosa, ma poi, per sincerarsene, fece invitare a palazzo i consoli dei calderai e dei saponai, che erano fra i capi della congiura. Costoro non volevano andare in bocca al lupo ed eransi rifiutati, ma poscia sollecitati e rassicurati dal Capitano della città e dai congiurati popolani vi si recarono, ma, come era da prevedere, per esservi trattenuti.
Venuti, pertanto, gli altri congiurati, e specie il D’Alesi, a conoscenza del tranello, misero in subbuglio la città e la rivolta divampò, per cui il Vicerè coraggiosamente fuggì dal palazzo con la famiglia e corse ad imbarcarsi al Molo sulla Capitana di Sicilia, veleggiando con altre galèe verso l’Arenella.
La nobiltà, gli inquisitori ed i religiosi erano in grande sgomento, temendo il saccheggio delle loro case. Ma il D’Alesi, che fu proclamato Capitano Generale del Popolo, frenò i rivoltosi, assumendo con grande prestigio la direzione della cosa pubblica, al fine di apportare bene alla popolazione, nei limili di giuste ed oneste pretese.
Ciò malgrado, quel vento di fronda che minacciava di diventare ciclonico, non garbava ai signori, che nulla volevano cedere e, quindi, auspice l’inquisitore Trasmiera, fu ordito uno stratagemma per abbattere l’organizzazione della rivolta, che faceva capo al D’Alesi.
Tutta quanta la nobiltà, con l’aiuto dei Padri Teatini, finse di volere venire a patti, discutendo le richieste del Capitano del Popolo, verso il quale ostentarono il massimo ossequio e la più grande stima.
Il povero D’Alesi abboccò all’amo e spesso convenne nella Chiesa di San Giuseppe e nella Casa Pretoria, parlamentando da pari, con principi e prelati.
Frattanto, la sua casa, sita nel modesto rione Conceria, si riempiva di ricchezze, facendo a gara i signori nel mandargli preziosi doni, arazzi, mobili, e financo una carrozza con quattro mule bianche regalavagli Don Ottavio Lanza Principe di Trabia.
Culminava l’arguzia dei potenti nemici con l’offerta fatta al D’Alesi della carica di Pretore a vita della città, con vistoso stipendio ed altre onorificenze, che egli dapprima recisamente rifiutò, ma che poi finì per accettare, per le insistenze dei suoi finti adulatori. Non appena, infatti, costoro videro l’inaccorto tribuno, carico di onori e di ricchezze, sottomano agivano perchè cadesse in sospetto e disistima della popolazione, che si credette tradita ed abbandonata dal suo capo.
Il colpo riuscì appieno. Furono sollevate le masse contro i caporioni della sommossa, venendo dapprima trucidato e decapitato Francesco D’Alesi fratello di Giuseppe, nella sua alba di nozze, e quindi lo stesso Giuseppe, che nobilmente, disprezzando la fuga, venne trafitto davanti la chiesa della Madonna della Volta, ove un cavaliere di casa Platamone gli recise il capo, perchè fosse portato in trionfo con quello del povero Francesco.
Ed allora il coraggioso Vicerè tornò.
Così, la storia di quei tempi tristi echeggia di frequenti ruggiti del popolo oppresso, fino all’avvicinarsi degli eventi decisivi per la causa della libertà.
Dopo i moti del 1820 il Governo borbonico sentiva ancora l’eco minacciosa della vecchia Conceria.
Non vi era altro mezzo che distruggerla; e però il Tenente Generale D. Vito Nunziante, temendo che l’ordine non fosse eseguito, con sufficiente apparato di forze prese stanza nella piazzetta davanti la Parrocchia di S. Margherita e non si rimosse se non quando furono chiusi i sotterranei, abbandonate le case ed espulsi i conciapelli.
Indi a che, sul luogo stesso, sorse il Mercato Nuovo, con la famosa Funtanedda, che per tanti anni dissetò con le sue fresche acque gli antichi palermitani che, quando avevano sete, bevevano acqua.
Ed ora è tutto un ricordo.


Oreste Lo Valvo (Oleandro): L'ultimo ottocento palermitano. Storie e ricordi di vita vissuta.
L'opera è la fedele trascrizione del volume originale, pubblicato con le Industrie Riunite Siciliane nel 1937, arricchito dalle foto dell'epoca. 
In copertina: Esedra del giardino di Villa Giulia. Olio su tela di Umberto Coda. 
Pagine 258 - Prezzo di copertina € 22,00
Il volume è disponibile:
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia - Sconto 15%)
Su tutti gli store di vendita online e in libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita Centro Commerciale Conca d'Oro), La Nuova Bancarella (Via Cavour), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), Libreria Macajone (Via M.se di Villabianca 102), La Nuova Ipsa (Piazza Leoni 60), Libreria Forense (Via Maqueda 185).

Oreste Lo Valvo: Il rione scomparso detto della "Conceria". Tratto da: L'ultimo ottocento palermitano. Storie e ricordi di vita vissuta.

 
Il rione, detto della «Conceria», perchè vi si conciavano le pelli, ebbe importantissime vicende, legate alla storia della vecchia Palermo.
Oggi non esiste più, essendo state recentemente demolite le ultime antiche fabbriche, già sostituite da moderne costruzioni che danno alla località un aspetto completamente diverso, non esistendo più alcuna traccia del passato.
Le prime demolizioni, dal lato della Discesa Bandiera, furono iniziate dopo il colera del 1885, tanto per dar principio a quel risanamento, che per circa mezzo secolo lasciò, in certo modo, le cose come si trovavano. L’area, infatti, che risultò da quelle demolizioni, rimase per lunghissimi anni, tra dirupi e macerie, come una zona terremotata.
In seguito, la costruzione di Via Roma diè luogo ad uno sventramento piuttosto importante del secolare rione e fu allora che scomparvero la Parrocchia di Santa Margherita, e la buia, tortuosa Via Formari, oggi Via Venezia, venendo a sorgere, sui rispettivi terreni, il teatro, il palazzo Biondo ed il famoso Ferro di cavallo, che, come mercato provvisorio, rimasto in piedi parecchi lustri, non ebbe fortuna.
Ugualmente, per circa un trentennio, la parte restante della cosidetta Vucciria Nuova, salvo l’intervento di una tettoia in ferro, riservata alla vendita del pesce, conservò il suo vecchio aspetto, qual’era sino a quando la vedemmo in parte, recentemente, sparire sotto il piccone demolitore.
Ed ora che le fabbriche sono state rase al suolo e ben poco resta di ciò che formava uno dei più tipici luoghi della città, tocca, in memoria, la parola alla storia, perchè ne riassuma le tradizioni e i ricordi.
Sono due i periodi da richiamare: l’ultimo, nel quale fu quel sito destinato a nuovo mercato, per supplire al vecchio, denominato piazza Caracciolo, dal nome del Vicerè, che lo aveva fondato, e il periodo precedente in cui, nel luogo stesso, esisteva la famosa Conceria, che fu covo di congiure e di rivolte cittadine sino al 1820, quando i conciapelli ne furono cacciati e le loro abitazioni vennero distrutte.
Sarà bene, intanto, al richiamo dei fatti, premettere un breve cenno sulla primitiva topografia della località, date le trasformazioni che essa venne a subire.
Prima che si costruisse la Via Maqueda e successivamente la Via Roma, i cui livelli sono alquanto elevati, in rapporto a quelli di piazza S. Onofrio, di piazza Nuova e di piazza Caracciolo, la vecchia città, a partire dal Papireto, sino a Porta Carbone presentava tutta una zona sottomessa, fiancheggiata, da un lato, dal rialzo di Via Celso, del Monastero delle Vergini e della Chiesa di S. Antonio e dall’altro, dall’emergenza ove, a partire dal Capo, corrono la Via S. Agostino e la Via Bandiera.
Costruendosi, infatti, la Via Maqueda, fu necessario sistemare i dislivelli con la gradinata della discesa dei Giovenchi, con quella tradizionale detta dei Ventitrè scaluna, oggi spariti, e con la discesa S. Rocco; il rialzo fu superato con le due gradinate di Via Venezia e con l’altra, a fianco la Chiesa di S. Antonio.
Riguardo a quello che era in origine il rione Conceria, del quale ci occupiamo, le trasformazioni più radicali avvennero col taglio dritto della Via Maqueda. Esisteva nel sito stesso, per il quale doveva passare la nuova strada, l’antica chiesa di S. Rocco eretta nel 1347 dal Senato di Palermo, quando la città era infetta dalla peste. Fu, allora, quella chiesa demolita e ricostruita nel 1627, ma sparì anch’essa più tardi nel secolo scorso, per dare posto alle case ad angolo della discesa di piazza Nuova, che porta, tuttavia, il nome di S. Rocco.
Prima ancora che sorgesse la Via Maqueda, la piazza S. Onofrio ed il rione detto della Concia erano, come fu accennato, allo stesso livello. Nella piazza S. Onofrio esisteva allora il pubblico macello, nei pressi dove ancora trovasi la Piazzetta Caldomai, e dal macello passavano le pelli degli animali macellati al rione della Concia, per la relativa lavorazione.
Nel farsi, intanto, la nuova strada, a non intralciare quel traffico, fu disposto un passaggio sotterraneo che univa le due strade.
Dalla volta, che copriva tale passaggio, prese nome una imagine della Madonna col Bambino in braccio, che in uno dei muri dipinse, su lavagna, nel 1602, il pittore Giovanni Caviglione. Salita in fama miracolosa detta imagine, nel 1641 il Grande Almirante di Castiglia, Don Alfonso Enriquez da Caprera, innalzò in di Lei onore la chiesa, che chiamò della Madonna della Volta, da pochi anni demolita.
Scendendo per la discesa S. Rocco, sul lato destro, ove trovansi le prime botteghe di macellai e precisamente dove hanno i loro spacci un verdumajo e un fruttivendolo, notasi, in alto, un arco acuto, che unisce i due vani. Da uno di essi, per una scaletta e quindi per un bujo meato si giunge ad una casa della Piazza delle Vergini e vuolsi che sia, quello, l’arco della rinomata Porta Oscura del periodo Arabo, che usciva sulla parte allora paludosa della città, la quale verso S. Antonio, allora Porta Patitelli, confondevasi col mare.
Ma lasciando nella notte dei tempi i lontani avanzi e la tradizione che li accompagna, vogliamo riferirci a quell’epoca più prossima, in cui il misterioso rione diede filo da torcere ai passati Governi e specialmente a quelli del periodo tristissimo della dominazione spagnuola...
(Foto: Palermoviva.it) 


Oreste Lo Valvo (Oleandro): L'ultimo ottocento palermitano. Storie e ricordi di vita vissuta.
L'opera è la fedele trascrizione del volume originale, pubblicato con le Industrie Riunite Siciliane nel 1937, arricchito dalle foto dell'epoca. 
In copertina: Esedra del giardino di Villa Giulia. Olio su tela di Umberto Coda. 
Pagine 258 - Prezzo di copertina € 22,00
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lunedì 4 marzo 2024

Filippo La Torre: Il volto di suor Gioacchina era senza colore e il suo sguardo aveva perso la luce... Tratto da: La primavera della strummula. Romanzo

Era già prossimo al mio banco. Ci separava soltanto mezzo metro e roteava minacciosamente in aria la bacchetta di canna. Alzò il braccio ancora di più, come se stesse per colpire le mie spalle, ma all’improvviso deviò la traiettoria e mi colpì con forza alla testa. Balzai dal banco con la velocità di un giaguaro. Prima gli assestai una testata allo stomaco poi, appena il malcapitato ruzzolò a terra, gli fui immediatamente sopra e lo tempestai di pugni. Francesco fu il primo a correre. M’incitava:
«Ammazzalu, ammazzalu a ‘stu curnutu!»
Suor Maria, svegliata in malo modo dall’improvviso trambusto, si accorse della scena e, ancora immersa nelle immagini sfocate di pecore al pascolo, si mise a gridare impaurita. Lasciò subito la sua scrivania, oscillando la pancia come un otre semivuoto. Riuscì con fatica a farsi largo tra tutti i ragazzi che ci attorniavano e afferratomi per un braccio, cercò di strapparmi via da Gaspare.
«Lascialo, lascialo» – mi gridava.
In pochi secondi dall’aula accanto intervenne in suo aiuto suor Ludovica e anche se in due, fecero fatica per trascinarmi lontano. Gaspare rimase a terra con la bocca insanguinata. Avrei voluto percuoterlo ancora ma fui frenato da emozioni contrastanti, da sentimenti che non mi assolvevano.
«Ta circasti, ca ti paria ch’eri u megghiu? Cca na vota, tutti si scantavanu ri tia, ora finiu!»
Suor Maria strattonava il mio braccio fino a farmi male e gridava alle mie orecchie:
«Sei una bestia, sei una bestia!»
«Andiamo dalla Madre superiora!» – disse suor Maria, continuando a trattenere con forza il mio braccio.
L’ufficio di suor Gioacchina era in fondo al corridoio. Suor Maria mi trascinava senza smettere di strattonarmi. Pensai per un attimo di mollarle un calcio sugli stinchi ma strinsi i denti per non aggravare ulteriormente la mia posizione. Varcammo la porta dell’ufficio. La Madre superiora sembrava fosse già in attesa. Stava ritta come un palo di castagno, in piedi, davanti alla sua scrivania.
«Inginocchiati!» – m’intimò suor Maria.
Per un attimo pensai di essermela cavata con un rimprovero. Ubbidii, e con le mani giunte mostrai un viso contrito a testimonianza del mio pentimento. Suor Gioacchina chiese alla consorella con un accento inquisitorio che mi fece rabbrividire:
«Qual è la sua colpa?»
«Ha preso a pugni un bambino che era stato incaricato di mettere ordine».
Senza darmi possibilità di replica, la Madre superiora si avvicinò alla sua scrivania, aprì un cassetto e prese una verga d’ulivo di circa mezzo metro.
«Fammi vedere le mani!»
Io tenevo gli occhi bassi, in silenzio, e sentivo un forte odio nei confronti di suor Maria per non avermi concesso anche pochi secondi da esporre a mia difesa, poi alzai la testa verso la Madre superiora. Ero inginocchiato ai suoi piedi e dalla mia posizione sembrava di un’altezza smisurata. L’uniformità della sua figura, dalla tonaca al velo, contribuiva a darmi di lei un’immagine sproporzionata. Ero sopraffatto non solo fisicamente ma anche dal pentimento per una colpa non voluta. Non riuscivo a scorgere i suoi occhi e allora chiudevo i miei. Allungai titubante la mano destra.
«Tutte e due!» – mi gridò.
Scoprii anche l’altra e mi accorsi che tremavano. Furono due colpi secchi, uno dopo l’altro. Due staffilate date con forza, ma dalle mie labbra non sfuggì nemmeno un lamento.
«Adesso ti puoi alzare!»
Riaprivo gli occhi. Il volto di suor Gioacchina era senza colore e il suo sguardo aveva perso la luce. La trasfigurazione riprendeva possesso del corpo e la sua faccia pian piano diventava colore del veleno. Non piansi. Piangeva per me la Madonna della Pietà di Michelangelo, appesa alla parete dietro le sue spalle, dietro la povera sedia dall’alto schienale. 
La Madre superiora non la vide.




Filippo La Torre: La primavera della strummula. Ricordi di bambino vissuto in un collegio per orfani o disadattati che s'innestano nelle condizioni di vita degli anni '50.
Collana Albatro Randagio. Prezzo di copertina € 22,00.
Il volume è disponibile:
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (Sconto 15%, consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su tutti gli store di vendita online e in libreria presso:
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Oreste Lo Valvo: Nel cantone che guarda il Mezzogiorno vedesi la statua dell'Autunno... Tratto da: L'ultimo ottocento palermitano. Storie e ricordi di vita vissuta.

 
Come è già noto, e lo ripetiamo per il necessario riferimento all’epoca nella quale la piazza ebbe la sua prima sistemazione, il livello stradale di essa, in rapporto a quello odierno, era ben differente, giacchè esso stava alla medesima altezza, di quello in cui oggi vedesi la Fontana Pretoria, e dovette con il nuovo livellamento stradale, operatosi dopo il 1860, essere notevolmente sbancato ed abbassato. Fu, perciò, in conseguenza, necessario raccordare tutta la parte inferiore dei quattro edifici, aggiungendovi le quattro grandi vasche marmoree, ornate di festoni, che raccolgono le acque delle quattro più antiche piccole fonti soprastanti.
Nel cantone che guarda il Mezzogiorno, attaccato alla casa della famiglia Di Napoli, già dei Principi di Resuttana, vedesi al primo ordine la statua dell’Autunno, opera dello scultore Nunzio La Mattina, all’altezza del piano nobile del palazzo, e quindi al secondo ordine dell’edificio, ammirasi in una grande nicchia la statua del Re Filippo III, della quale, come delle statue degli altri re si sconosce lo scultore. Al terzo ordine v’e la statua di S. Oliva, Vergine e Martire palermitana, quale statua e quella delle altre tre Sante vergini furono opera degli scultori Carlo D’Aprile e Gaspare Guercio.
In alto al prospetto ergesi maestoso lo stemma in marmo con l’Aquila Austriaca. La facciata di questo cantone risponde al Mandamento Castellammare, quello che anticamente era il quartiere della Loggia.
Nella seconda facciata, che corrisponde alla casa già di D. Giuseppe Jurato, Avvocato Fiscale della Gran Corte, e che fu poi del Marchese di Rudinì, appartenente al Quartiere del Capo, vedonsi, con la medesima disposizione, al primo ordine la statua dell’Està, al secondo la statua di Filippo II, al terzo quella di S. Ninfa ed in alto lo stemma reale.
Dal lato della chiesa di S. Giuseppe, che corrisponde al Quartiere dell’Albergheria, sta in piedi al prospetto la statua simbolica della Primavera, al secondo ordine la statua di Carlo V, al terzo la statua di S. Cristina, e sulla cornice lo stemma con le armi reali.
In ultimo, della facciata corrispondente al Quartiere della Kalsa, vedonsi al primo ordine la statua dell’Inverno, al secondo quella di Filippo IV ed al terzo la statua di S. Agata, sormontata in alto dall’Aquila con le regie insegne.
Ricordano gli storici, che erasi divisato dapprima che le statue dei re dovessero essere di bronzo e, difatti, si arrivarono a fondere quelle di Carlo V e di Filippo IV che poscia per mancanza di fondi si provvide a farle in marmo, essendosi collocata quella dell’Imperatore Carlo V a Piazza Bologni e quella del Re Filippo IV nella piazza del Real Palazzo, da dove fu poi tolta e distrutta.
Queste brevi note non servono che a richiamare, per la vita come per la storia dell’arte, l’origine e le vicende di una piazza nobilissima, che ebbe tanta parte nelle fortune e negli usi della città.
Potrà darsi, intanto, che il richiamo giovi a far sì che qualche sguardo si levi, con certo interesse, ad ammirare ciò che non sarà più facile vedere ai tempi del cemento armato.


Oreste Lo Valvo (Oleandro): L'ultimo ottocento palermitano. Storie e ricordi di vita vissuta.
L'opera è la fedele trascrizione del volume originale, pubblicato con le Industrie Riunite Siciliane nel 1937, arricchito dalle foto dell'epoca. 
In copertina: Esedra del giardino di Villa Giulia. Olio su tela di Umberto Coda. 
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Oreste Lo Valvo: I Quattru Cantunieri. Tratto da: L'ultimo ottocento palermitano. Storie e ricordi di vita vissuta.

Questa piazza che, tuttavia, porta, ufficialmente, il nome di Vigliena, dal Duca di Villena, Giovanni Fernandez Paceco, che essendo vicerè, nel 1609 la dispose, desta prossimi e lontani ricordi, di vario ordine, su cui vale la pena di soffermarsi.
E ciò, tanto più, che il sensibile spostamento della vita cittadina verso il nuovo centro, che va dal Massimo al Politeama, ha fatto sì che i «Quattru Cantunieri», cuore della vecchia Palermo, a parte la persistente bellezza monumentale, restassero un quadrivio di semplice passaggio, non essendo più da tempo, quel luogo il ritrovo, che non pochi ancora rammentano, e che ebbe più in là, anche storicamente, la sua parte, come posto di svariati spettacoli, non che come punto strategico, in casi di moti e di dimostrazioni popolari.
Anticamente nelle ore del mattino vi si riunivano i servitori e i cocchieri disoccupati in attesa di «piazzarsi» presso nuovi padroni, che ne andassero in cerca.
Durante la giornata vi sostavano gli immancabili oziosi indigeni o quelli di passaggio, ma vieppiù, per le persone di affari, i Quattro Canti erano il luogo consueto per gli appuntamenti. Vedersi o trovarsi ai Quattro Canti era la parola d’ordine. 
Di sera, poi, sempre la bella e spaziosa piazza era il raduno preferito della spensierata gioventù e specie degli studenti di provincia, che non avendo, a quel tempo, dove andare, per difetto di quattrini e di pubblici ritrovi, stavano per delle ore a chiacchierare e a far baldoria sui marciapiedi, accanto alle fontane.
I più ardimentosi già si occupavano di politica, quando il fermento irredentista cominciava a dar noie alla Polizia dell’epoca.
Ai Quattro Canti, infatti, si complottava e lì, a volte inattesamente, al giunger di notizie che più eccitavano gli spiriti, formavansi le dimostrazioni, con una bandiera improvvisata, al grido di viva Oberdank, viva Trento e Trieste.
Ma in un batter d’occhio, tra botte, baruffe e qualche squillo, tutto tornava all’ordine, salvo a ricominciare in occasione di nuovi conati patriottici.
Frattanto che succedevansi le belle giornate domenicali, piene di sole e di brio, la medesima gioventù vestita a festa occupava il magnifico quadrivio in atteggiamento mondano, seguendo il passaggio delle ragazze, che accompagnate dai genitori, con pudico e modesto contegno, andando a messa o ritornando, erano costrette ad attraversare quel punto tanto dardeggiato o notoriamente strategico.
E così, la vita cittadina per ogni verso, e per tutti gli avvenimenti addensavasi ai Quattro Canti, nella storica e tradizionale piazza che, mentre per la sua centralità, e per l’incrocio delle due principali strade, dava luogo a un grande e continuo movimento, poi la sera, per la sua forma circolare, quando cessava il transito delle carrozze, prendeva l’aspetto di una immensa galleria, che pareva riunisse il pubblico tutto, in un recinto chiuso.
E che a rappresentare una grande sala ben si prestasse, ebbe a provarsi quando in varie occasioni di pubbliche feste ed in ultimo per l’incoronazione di Carlo III si congiunsero le quattro facciate con degli archi trionfali di uguale architettura e se ne coprì il cielo con un grande baldacchino in veli e vari altri ornamenti.
Era, dunque, la piazza Vigliena, considerata, come la sala di pubblico e ordinario convegno della città, onde fu sempre decorata di ricchi paramenti in occasione di feste sacre e profane. Ai Quattro Canti innalzavansi, infatti, preziosi altari in piedi a ciascuno dei quattro prospetti, specialmente per il festino di S. Rosalia, tutte le volte che fu più sontuosamente celebrato, e nel centro della piazza, fino ai giorni nostri vediamo innalzarsi l’altare, per la processione del Corpus Domini, usandosi che dal quadrivio fosse impartita la benedizione alla città.
E, come per le feste sacre, anche per quelle profane il popolo trovò il suo abituale posto di allegro concentramento nel vecchio ottangolo per le spensierate ed allegre baldorie del carnevale, per i suoi veglioni mascherati ed infine per assistere alla mezzanotte di l’ultimu jornu alla famosa cremazione d’u nannu fra lo sparare dei mortaretti ed il rimpianto dell’allegria che finiva allora solo annualmente, e che, purtroppo, poi finì per sempre, lasciando legato, proprio ai Quattru Cantunieri, il ricordo d’una tipica tradizione che non ritorna più.
Ma per la parte monumentale i Quattro Canti sono al loro posto. I Palermitani odierni vi passano e vi ripassano tutti i giorni sbadatamente assillati dagli affari o trasportati dalle veloci macchine, senza che alcuno si soffermi a guardare la bellezza e l’armonia architettonica della imponente piazza, senza che alcuno avesse conoscenza della storia di quei superbi edifici e della loro mirabile e complessa composizione.
Ed, invece, se qualcuno dei giovani qui nati avesse vaghezza di apprenderne il grande pregio ben potrebbe domandarne ai forestieri che, con la loro ammirazione, mostrano di capirne e di saperne qualche cosa. 
Dicono gli storici e le guide della vecchia Palermo che l’autore del progetto dei Quattro Canti sia stato l’Ingegniere Giulio Lasso, Regio Architetto, il quale immaginò le facciate dei quattro edifici divise in tre ordini di architettura, dorico il primo, ionico il secondo, composto il terzo.
Prima di andare oltre nella descrizione dei magnifici prospetti, sarà bene a sapersi che la costruzione di essi, iniziata nel 1609, ebbe il suo termine nel 1620, durata non lunga, data l’importanza dell’opera, e che, nel corso dell’esecuzione, vari mutamenti ebbe a subire il progetto originario, intesi opportunamente a migliorare il risultato d’insieme.



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