Tutti i volumi sono disponibili: dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia), su tutti gli store di vendita online e in libreria. Gli e-book sono disponibili su streetlib store e tutte le piattaforme online.

mercoledì 26 febbraio 2020

La civile indifferenza: Gli ebrei di quel raggio dovevano restare nelle celle...

Gli ebrei di quel raggio dovevano restare nelle celle, ma c’era un orario, verso sera, in cui potevano incontrarsi, ed era terribile.
Una disperazione profonda. Quelli che avevano visto partire un trasporto sapevano già che erano viaggi senza ritorno, alcuni erano completamente disperati, altri credevano in cose non vere. Per esempio mi ricordo che un giorno fecero sposare una ragazza con un ragazzo che non si erano mai visti, perché pareva al padre di questa giovane che le donne sposate fossero più protette dagli eventuali abusi.
Passarono 40 giorni in un alternarsi di speranze e di disperazioni perché un trasporto era già partito e i più saggi dicevano:
«Adesso quando saremo sei o settecento partiremo anche noi.»
Altri dicevano:
 «Ma non è possibile che Mussolini faccia partire dei cittadini italiani, sia pure declassati come siamo noi. Per dove poi? Per la Germania?»
Non si immaginava, non si voleva credere.
Invece un pomeriggio, entrò un tedesco nel raggio e lesse un elenco interminabile di 605 nomi che si dovevano preparare a partire il giorno dopo. Per ignota destinazione.
Lì Rino Ravenna, che con tanta fatica aveva passato la montagna d’inverno, quando sentì il suo nome decise che non lo avrebbe fatto il viaggio. Andò su, all’ultimo piano di quei ballatoi che ora sono stati chiusi, ma che allora distinguevano il carcere di San Vittore, scavalcò e si buttò giù. Morì sul colpo.
Io non avevo mai visto un morto, me lo ricordo così scomposto, e con che fatica mio papà si assunse il compito di andare a dire al fratello Giulio, più vecchio di lui, che non si alzava più da quella branda, che Rino si era suicidato.
Rino aveva scelto lui il suo viaggio.

La civile indifferenza. Le parole di Liliana Segre fedelmente raccolte e trascritte dalle sue testimonianze. A cura di Anna Squatrito.
In appendice i testi delle leggi razziali dal 05 settembre 1938 con le foto dei giornali dell'epoca. 
Pagine 176 - Prezzo di copertina € 13,00
Disponibile presso La Feltrinelli libri e musica
Disponibile online su Amazon, Ibs e tutti i siti vendita.
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it

mercoledì 19 febbraio 2020

Vincenzo Linares: Si narrarono cose orrende... - Tratto da Maria e Giorgio o Il Cholera in Palermo

Quando queste cose fra noi avvenivano, ne correva la voce all’estero ben varia e diversa. Qua si soffriva, si piangeva, si moriva, colà si creavano le più strane fantasie: qua un’orribile tragedia, colà una ridicola farsa. Si narrarono cose orrende, si dipinse Palermo in preda alle stragi, alle rapine, agl’incendi, preda di una plebe insolente. Ministri della fama furono i giornali d’oltremonte, e la fama colle sue mila trombe ne sparse la voce dovunque.
Nel secolo di Victor Hugo ogni talento è una fantasia, ogni scrittore un romantico: nè c’era miglior soggetto di questo in un tempo in cui il brutto e il grottesco son di moda, e le scritture riboccano di boia, di veleni e di mannaie. Mano dunque alla penna, anzi a cento penne; mano alla descrizione, in cui il secol nostro è così inventivo e prodigioso. Quindi il dramma, il romanzo o la tragedia (come volete chiamarlo) divenne più vivo e animato: Palermo teatro di orrende scene: le strade insanguinate, le case incendiate, le teste de’ medici galleggianti pel mare, perché ogni dramma dee aver le sue teste: quindi il Capo del Governo trucidato, perché una catastrofe al dramma era pur necessaria.
Tutto fu raccolto con estrema pazienza ciò che si era detto e non detto, ciò ch’era avvenuto e non avvenuto: ci furon morti, ci furon stragi, ci furon veleni, ci fu ancora la chiesetta (idea romantica!) dove si erano riuniti gli assassini al modo dell’ultimo canto della Gerusalemme, e dove fu accanito  il combattimento, e decisiva la vittoria pei soldati, quei soldati che grazie a Dio non ebbero qui fra noi occasione di tirare una fucilata.
Ma chi pensava allora tra noi a sì strani aborti di fantasia? Chi dolevasi di tante calunnie? Anzi che sdegno quell’effetto produssero che suole la vista di una ridicola farsa; e se ripetevansi egli era fra le risa e il contento; sì fra le risa e il contento, che già cessava il divino flagello. Agosto sorgeva con più lieti auspici. Affacciammo pavidi la testa dai balconi, come le rane di Esopo dopo la caduta del serpente fatale; e vedemmo le botteghe aperte, le piazze animate, le finestre spalancate, le belle testine affacciarsi con occhi sereni e tranquilli. Via i becchini, via i carri, via ogni tristo apparato di morte. 
Tanto avea fatto un mese di sventura, tanti affetti destati, tanti odî sbanditi; un mese era per noi un secolo, ma un secolo di pene e di sventure. Trentamila uomini eran caduti, il fior della bellezza, il fior delle lettere e delle scienze: Scinà, quel sole della nostra letteratura, Bivona il botanico, Palmeri lo storico-economista, Foderà il nostro Cuiacio, Greco il medico, Tranchina lo scopritore del nuovo sistema d’imbalsamazione, Costantini il poeta, Pisani, Di Giovanni, Riolo, ed altri tutti onore e decoro di questa nostra patria.

Vincenzo Linares: Maria e Giorgio o Il Cholera in Palermo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo devastata dal Cholera del 1837.
Nella versione originale pubblicata dalla Tipografia Lao nel 1838
Disponibile presso La Feltrinelli Libri e Musica
Disponibile su Amazon, Ibs e tutti i siti vendita online.
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

Vincenzo Linares: Il timor panico. Tratto da: Maria e Giorgio o Il Cholera in Palermo

Il popolo, come vi ho detto, da che si sparse la nuova fatale fece orecchie da mercante, rimase incredulo alle buone ragioni, ai buoni consigli; emise anzi la sua sentenza: non esservi cholera. Ad accreditar la quale assai valse l’incertezza de’ medici, lo sfrenato gridare di alcuni anche fra loro, che gli era un mezzo di far danaro. Il sospetto corso di bocca in bocca, agitato e discusso in varii crocchi divenne una certezza: nè giovò a distruggerlo il fatto stesso, i cadaveri che passavano per le strade, lo sperpero generale, la morte d’illustri vittime. Fermo nel suo proposito spregiava la presenza del morbo, mangiava, beveva, rideva gridando:
- Vedete come si cura il cholera!
Io potrei contarvi più d’un fatto funesto, che seguì questa insana aberrazione di mente, ma allora dicevasi “È morto del vino, dello stravizzo.” Bel modo in vero di ragionare, che persuadendo gli eccessi trovava negli eccessi la causa del funesto avvenimento. La quale incredulità accrescendo la crapula non poco forse contribuì all’aumento del morbo. E questo era il minor male, perché in sostanza non si possono obbligare gli altri a pensare come volete; e se male faceano, lo faceano per sè stessi: il peggio fu che non si contennero allo stravizzo, ma scoppiarono in odio ed in sarcasmi contro i medici.
- Vedete questi dottori; ora vi danno un rimedio, ora un altro; ora c’è cholera, ora non c’è cholera; oggi è epidemico, domani è contagioso. Eh! gatta ci cova! Vogliono malattie, vogliono ospedali, chi sa che cosa essi vogliono!
Il morbo intanto, sebbene lentamente, cresceva e con lui altri mali non meno funesti. Tutto ad un tratto cessò il lavoro, cessò il commercio, l’annona rincarì, il monopolio fu nelle piazze: il popolo si vide privo di mezzi e di soccorsi. Quinci doglianze, quinci sinistri augurî e voci di spavento. Il popolo pria dominato da un cieco scetticismo, poi atterrito dalla miseria si diede in braccio a terrori di fantasia, al che contribuirono non poco le circostanze! Un teschio fu trovato nel cancello del Duomo, varii cartelli minaccevoli per le mura; qualcuno insolentiva per forza togliendo il pane ai venditori, di che la fama pel momento magnificava la violenza ed il numero: le quali cose operate da pochi, che volean pescare nel torbido, lungi d’incitare atterrivano. Nulla veramente di reo si macchinava, come il fatto istesso ha dimostrato, nulla era di positivo tranne il timore del disordine.
I magistrati della città, i sanitarî e la pubblica forza operavano dal canto loro con quella prudenza che i tempi volevano. Si chiudevano le case degli appestati, si portavano a lazzeretto le persone sospette, si promuoveva per quanto era possibile la salubrità e l’abbondanza delle vettovaglie: l’annona rincarita fu in sulle prime moderata, finchè diffuso poi il morbo, ruppe ogni freno l’ingordigia dei venditori: si profumavano le piazze e i luoghi immondi; si pubblicavano avvisi prescriventi un metodo più esatto di vita e misure di cautela. Fu raddoppiata la vigilanza, raddoppiata la pubblica forza, richiamata dalle provincie buona mano di soldati d’arme, gente di mal affare arrestata; punito solennemente quel solo che avea dato il mal esempio di rubare il pane nella piazza, con pronta pena se non approvata dal buon senso, certo dalle circostanze che erano difficili: le feste che chiamano folla di popolo proibite pel doppio oggetto della pubblica salute e della tranquillità pubblica: furon cacciati via i legni venuti da Napoli, ancorati al nostro porto. Le quali saggie e prudenti misure impedirono disoneste voglie e disordini; ma non bastarono a togliere l’agitazione degli animi che cresceva collo scorrer de’ giorni.
Ecco gli eccessi del popolo; poco avanti non badava ad un male presente, ora tremava di un pericolo futuro. Col cadere del giorno ventitrè parvero avverarsi i sinistri augurj. Come, quando e da chi, s’ignora; certo sorse una gran voce di scoppiato tumulto, sorse a un punto dall’uno all’altro lato della città. Quanti erano per le strade correvano a tutta furia, gridavano a piena gola, fuggivano come se la città fosse posta a ferro ed a fuoco. Invano gridavasi “è nulla è nulla” invano la pubblica forza sboccando da tutti i lati fermava i fuggenti, cercava di rianimare gli animi atterriti: fu generale il trambusto.
La pressa maggiore era, appunto, nel luogo ove si trovavano i nostri personaggi: ei si videro urtati e assordati da una moltitudine di persone, che scompigliata si aggirava per la chiesa. Ognuno faceasi avanti per gittarsi alla porta; qua peggio: gente di fuori, gente di dentro, quella irrompeva, questa lanciavasi, e nell’urto accresceva il terrore e lo scompiglio. 

Vincenzo Linares: Maria e Giorgio o Il Cholera in Palermo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo devastata dal Cholera del 1837.
Nella versione originale pubblicata dalla Tipografia Lao nel 1838
Pagine 163 - Prezzo di copertina € 16,00
Copertina di Niccolò Pizzorno - Elaborazione grafica: Maria Squatrito 
Disponibile presso La Feltrinelli libri e musica
Disponibile su Amazon, Ibs e tutti i siti vendita online
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

Remo Bassini: Sa di antico il mio piccolo bar... tratto da Il bar delle voci rubate

Sa di antico il mio piccolo bar, è sotto i vecchi portici, nel cuore di questo paese, proprio vicino alla grande piazza dove si svolgono i comizi, si va al mercato oppure in Municipio, dove gli operai salgono sull’autobus che li porta nella zona industriale e dove la domenica la gente prima va a sentir messa nella maestosa chiesa di Santa Flavia e poi va a comprare i dolci della pasticceria Delrosso.
È un bar d’altri tempi, questo, con qualche trasgressione: un televisore, un telefono a gettoni, un biliardo e un vecchio flipper. Ma il banco è più vecchio di me, i tavoli e le seggiole son tutti di noce.
Per tanti anni mi sono fatto un sedere tanto: barista, cameriere, anche un po’ cuoco e naturalmente cassiere. Sempre solo. Tanto, troppo lavoro al mattino per le prime colazioni degli operai che vanno a lavorare in autobus per le otto, e che hanno fretta di caffè, cappuccini, mentre leggono la Gazzetta dello Sport. Va peggio nel primo pomeriggio, tra l’una e mezza e le due e un quarto. Mentre gli impiegati della banca che c’è qui, all’angolo tra la via principale e la piazza, trangugiano panini e insalate miste arrivano i primi pensionati che in piedi, consumano caffè aspettando che si liberino i tavoli per giocare a scopone tutto il pomeriggio. Tra le due e le due e un quarto vivo quindici minuti d’inferno: gli impiegati vogliono, e in fretta, il conto e il caffè, così possono sgranchirsi le gambe prima di rientrare in banca. E i pensionati, per lo più ex operai ed ex muratori, che non hanno simpatie per quei bancari vestiti bene e che masticano con la bocca chiusa, pretendono anche loro un trattamento veloce: vivono di ricordi, di partite a carte, di chiacchiere e tanta noia, ma non hanno tempo di aspettare. E, appena entrati, alcuni (diciamo i più) hanno un modo tutto loro di salutare: indicandomi la macchina del caffè. Corretti, normali o macchiati, in quel quarto d’ora ne preparo dai quaranta ai settanta, niente male per la cassa.
Ma preferisco la sera: meno incassi, ma perlomeno respiro, perché è la sera che c’è il giro di gente che piace a me.
Di giorno, anche se il lavoro è tanto, io comunque ascolto. Ascolto sempre. Quando mi avvicino ai tavoli per servire, le persone continuano a parlare senza badare a me. Raramente s’interrompono. Pare quasi che le persone siano convinte che io sia sordo, o che a me delle loro storie, delle loro confidenze, anche intime, non importi nulla. La mia riservatezza è un fatto scontato: del resto il paese è piccolo e la gente sa che bado ai fatti miei.
Non è così. Per un certo periodo della mia vita, quando restavo da solo, su un quaderno avevo preso l’abitudine di collezionare le “voci” che più mi colpivano.
Ho iniziato per gioco, per un quaderno a quadretti, con la copertina nera e lucida, nuovo, senza nemmeno un rigo scritto, dimenticato da una ragazzina che non conoscevo e che non avrei più rivista Aveva marinato la scuola, era chiaro. Con lo sguardo rivolto alla porta d’ingresso, aveva trascorso un’ora nel mio bar, col terrore che entrasse qualche viso noto, un parente, un professore.
In quel quaderno, inizialmente, avevo cominciato ad annotare le barzellette più divertenti che ascoltavo: le riscrivevo per non dimenticarle e, all’occorrenza, raccontarle. Ma questo non è mai avvenuto. Passai ad altro.
Volevo vedere se esistono risposte furbe alla domanda che quasi tutti fanno quando si vedono, anche a distanza di poche ore: «Come va?»
Così, nella terza pagina del mio quaderno, in alto e in maiuscolo, ho scritto il titolo: «Come va?»
Sotto, dovevano starci le risposte furbe. Quelle diverse. Fu un tentativo inutile. Feci solo un’indigestione di “Bene grazie”, “Potrebbe andare meglio”, “Facciamola andare”, “Così così”, “Va!”, di “Non c’è male”, “Insomma”, di (tantissimi) “Finché c’è la salute”, di (qualche) “Va di merda.” Era destino che in quella pagina, sotto quel titolo, dovesse restare solo dello spazio bianco. Del resto anch’io una risposta furba non l’ho ancora trovata. Faccio parte della categoria di chi dice “Insomma.” Insomma, fiato sprecato.

Remo Bassini: Il Bar delle voci rubate. Romanzo. 
Pagine 171 - Prezzo di copertina € 16,00
In copertina: Danae e la pioggia d'oro di Lorena Fonsato.
Elaborazione grafica copertina: Maria Squatrito
Disponibile presso La Feltrinelli Libri e Musica
Disponibile online su Amazon, Ibs e tutti i siti vendita.
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it

Liliana Segre: E fummo nel carcere di San Vittore... - Tratto da: La civile indifferenza. Le parole di Liliana Segre fedelmente raccolte e trascritte dalle sue testimonianze

Nata e cresciuta a Milano, ero andata tante volte in piazza Aquileia in bicicletta, e il carcere l’avevo sempre visto da fuori, come è normale che si faccia, senza mai pensare a chi stava dentro.
Beh devo dire che vedere la piazza Aquileia da dentro, e vedere il tram che gira, è diverso... è molto diverso.
Non avrei mai pensato di vederlo da dentro.
Ma ricordo il sollievo immenso di quel momento in cui capii che non sarei stata divisa da mio papà.
Ero felice.
Forse è una bestemmia quella che dico.
Un raggio del grande carcere di San Vittore era adibito agli Ebrei che arrivavano rastrellati in tutta l’Italia del nord. Era uno dei punti di raccolta. Quando entrammo io e mio papà c’erano circa 200 persone. Poi si doveva arrivare a vederne 600 o 700 perché si formasse un convoglio per la deportazione. La sorpresa di essere insieme fu straordinaria.
L’unica «fortuna» di questa storia è che io l’ho vissuta da figlia, perché farlo da genitore penso che sia assolutamente insopportabile. Mio papà non poteva tornare vivo da questa esperienza, non era pensabile. La sua sofferenza fu tale, fu terribile, che non potrò mai dimenticare i suoi occhi.
E quella cella n. 202 del quinto braccio adibito agli ebrei fu l’ultima cameretta, piccola e povera cella, vuota di tutto che non fossero una branda e un pagliericcio dove stava mio papà per terra e un secchio per i bisogni, che io divisi con lui.
Fu l’ultima casina.
Come si fa a essere arrestati?
A essere in attesa della deportazione? E tu milanese, sei dentro il carcere della tua città perché sei colpevole d’esser nato.
Le giornate erano sospese, in attesa di quello che poteva succedere e che non sapevamo.
La Gestapo portava via gli uomini, due, tre volte la settimana per degli interrogatori, terribili, feroci. Sapevo quello che succedeva da quanto raccontavano quelli che poi uscivano...  Picchiavano, torturavano... Volevano sapere dove erano nascosti amici, parenti, dove erano i nostri soldi, il numero del conto corrente bancario, dove erano i nostri beni. Veniva messa completamente a nudo una persona, e doveva dire quello che era.
Io restavo sola in quella cella.
A tredici anni non si è più piccoli ma non si è ancora grandi. Si è così estremamente sensibili, si è così proiettati verso la vita futura, che sembra manchi un secolo a diventare grandi ma non si è più piccoli. Si è così esposti al bello e al brutto della vita...
La solitudine di quella cella.
Solo delle parole, delle scritte graffite di quelli che erano passati prima di noi da lì, e che avevano lasciato addii, firme, bestemmie, benedizioni, maledizioni. Erano scritte che imparavo a memoria e che mi facevano compagnia.
Non avevo un libro, non avevo una spalla su cui piangere, non ero religiosa.
Aspettavo.
Non ho mai dimenticato quelle ore.
Diventavo vecchia, vecchissima. Lo racconto sempre ai ragazzi, ai miei nipoti ideali di come si può diventare vecchi in un giorno, in una settimana.
E lui tornava, dopo un’ora, due ore.
E io lo abbracciavo senza parole.
E non ero più la sua bambina, ero la sua mamma, ero sua sorella.
Aveva bisogno di me.
Aveva un bisogno enorme.
Mi chiedeva scusa di avermi messa al mondo, era tremendo sentirsi dire una cosa simile.
Era tremendo.
Ci abbracciavamo.
Non mi raccontava niente. Aveva le occhiaie più profonde...
È importante stringersi ai propri genitori, perché non sono sempre fortissimi, non sono sempre vincenti. I genitori possono essere deboli, possono avere bisogno del nostro aiuto, possono essere dei perdenti così come era il mio meraviglioso padre. Lui nel mio ricordo è struggente come un figlio perduto, ora che sono vecchia. 

La civile indifferenza. Le parole di Liliana Segre fedelmente raccolte e trascritte dalle sue testimonianze. A cura di Anna Squatrito
In appendice i testi delle leggi razziali a partire dal 05 settembre 1938 e le foto dei giornali dell'epoca. 
Pagine 176 - Prezzo di copertina € 13,00
Copertina di Maria Squatrito. Foto in copertina: Maria Luisa Lamanna. 
Disponibile presso La Feltrinelli libri e musica
Disponibile online su Amazon, Ibs e tutti i siti vendita
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

mercoledì 12 febbraio 2020

Romanzi storici editi I Buoni Cugini editori che narrano il Cholera del 1837

Luigi Natoli: I morti tornano...
Siamo a Palermo. L'anno è il 1837. Il periodo è turbolento. I tentativi di cospirazione antiborbonica sono complicati dall'insorgenza di una grande epidemia di colera che miete vittime in maniera spaventosa. L'ambientazione storica, il contesto politico e sociale, la tragedia dell'epidemia sono abilmente descritti da Natoli all'interno di questo romanzo appartenente alla letteratura del contagio insieme alle celeberrime opere de "I promessi sposi" di Manzoni e "La peste" di Camus. 

Ne "I morti tornano..." Luigi Natoli lascia parlare da sole le miserie dell'uomo legate al dolore, alla fedeltà, all'onore, all'ira e tutte le altre pulsioni umane che, imbrigliate nelle maglie di una rete di un ineluttabile destino imposto dalle convenzioni, degenerano nella distruzione e nella pochezza dell'animo umano, non più libero e non più nobile. Una storia che proprio nel momento in cui sembra intorcinarsi dentro i canoni del più classico e banale feulleitton, effettua una nuova e inattesa virata rivelando la sua vera natura: quella - appunto - di una storia nera; anzi nerissima. E lo fa togliendo la speranza su tutto, tracciando un vero Noir. Un grande Noir storico. 

Massimo Maugeri
Prezzo di copertina € 22,00
Nella versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 21 gennaio 1931


Vincenzo Linares: Maria e Giorgio o Il Cholera in Palermo
Maria e Giorgio o il Cholera in Palermo è un romanzo storico di Vincenzo Linares scritto all’indomani dell’epidemia del terribile morbo che nel 1837 flagellò la Sicilia e in particolare Palermo, portando con sé nel solo capoluogo 27.604 morti. All’inizio si credette che il cordone sanitario predisposto dal Pretore della città avesse impedito l’entrata del colera ed in effetti per tutto l’autunno e l’inverno non ci furono problemi, ma poi alla fine della primavera, una caldissima estate favorì la diffusione della malattia e subito cedettero le organizzazioni preposte al contenimento del morbo, e gli annosi problemi igienici della città facilitarono l’incontrollata strage di cittadini contando circa 1.800 morti al giorno. In questa ambientazione drammaticamente fedele alla realtà, Linares narra di due giovani cuori, Maria e Giorgio, osteggiati nel loro amore dagli interessi di gente senza scrupoli, ma il vero motivo della scelta dell’autore di concepire un romanzo così strutturato era solo quello di poter descrivere la città di Palermo, stretta nella mano dell’orribile malattia con tutte le sue inefficienze, miserie, speranze ed atti di eroismo disinteressato. Da sopravvissuto al colera, Linares riporta il suo lucido ricordo di quei giorni, carichi di dolore, paura, viltà, e attesa, e sebbene stemperato dal feuilleton, il romanzo rappresenta un caposaldo della cosiddetta letteratura “da contagio” insieme a I promessi sposi di Manzoni, I morti tornano… di Luigi Natoli o dell’ancor più moderno La peste di Albert Camus. Ma il romanzo di Linares va ancora oltre, infatti, basterà leggere il brano qui di seguito riportato per farsi un’idea precisa delle mirabili intuizioni del narratore siciliano. Lasciate i dubbi e i timori, la civiltà grida più potente della ragione, lasciate i vecchi usi. Or che i miracoli del vapore si diffondono per tutto il mondo, restate anche voi nel mondo, aprite i vostri porti. Che vi conturba? Il cholera! Vili! Gli uomini cadranno è vero, cadranno migliaia di vittime, ma entreranno migliaia di zecchini. Il commercio la vinca una volta sulle vite, le cose sulle persone; non si spegnerà l’umana razza, s’aumenterà a pubblica ricchezza. Aprite i vostri porti. E l’ammirabile dottrina si spargeva come per incanto dall’uno all’altro polo. 

Prezzo di copertina € 16,00
Nella versione originale pubblicata dalla tipografia Lao nel 1838

Disponibili 
Presso La Feltrinelli Libri e Musica - Via Cavour 133 - Palermo
On line su Amazon, Ibs e tutti i siti vendita
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 




Vincenzo Linares: Effetto di civiltà. Tratto da: Maria e Giorgio o Il Cholera in Palermo

Poco dopo all’uscire dal giardino mi fu nota la cagione di quel bisbiglio, di quello spavento. Era il sette giugno, e il formidabile malore, che da venti anni percorre l’Europa, scoppiava inopinatamente a disertare la bella Palermo. Due miserabili marinari (Angelo Tagliavia e Salvadore Mancini) giacevano i primi sul letto di morte: il perché lo spavento e il bisbiglio prendevano un carattere più generale ed aperto a misura ch’io mi veniva raccostando alla città. La folla si avviava al quartiere della Kalsa; colà si alzavano profumi, si affaccendavano colà guardie, soldati, medici, magistrati, e un codazzo di popolo più incredulo che atterrito dal presente pericolo.
- È dunque vero? – dicevano cento e mille voci.
- Poveretti!... non si riconoscono!
- Son morti di cholera!
- Di cholera?
- Ma che cholera!
- Son vivi!
- Dagli a bere un bicchieretto di quello... eh! staran bene!
- Gli ammazzano con quei profumi, gli ammazzano!
Queste cose e molte altre correvano per le bocche di coloro che stavano lontani dalla scena; gli altri, che erano nella strada, si affollavano alla porta della casa senza cautela, senza cautela entravano dove giaceva uno degl’infelici già fatto cadavere, ne toccavano le vesti ed anche il corpo; e non vedendo i terribili segni indicati da’ medici, nè uscirne cosa che potesse al momento farli pentire dell’atto sconsigliato, scoppiavano in iscrosci di risa. Alcuni si affrettavano temendo la burrasca di trasportar casse, mobili, tavole e che so io.
- Il medico, il medico!
Tutti voltarono gli occhi alla porta, tutti si fecero da canto: entrò il medico, anzi non entrò, restossi avanti la porta a dieci palmi (misura legale!) del cadavere, fissò gli occhi spalancati sul letto di morte, guardò meglio con la lente per due minuti, fece una contorsione di labbra, gittò un largo fiato dal naso, si pose un fazzoletto alla bocca, e via. La qual cosa fu motivo di risa e di spavento nella folla.
- Vedesti? gli è fuggito!
- Dunque è cholera!
a strada intanto fu cinta di guardie, chi era dentro restò dentro, uomini, donne, vecchi, giovani, novanta circa, la gente di fuori in parte si disperse, in parte restò con animo di vederne la fine. I magistrati davano forti provvedimenti, una commissione medica si preparava a fare la sezione de’ cadaveri. Furono questi portati di notte al Lazzeretto e distesi sopra uno scoglio. La commissione a dieci palmi di distanza (misura legale!) osservò i cadaveri con cannocchiali e con lenti, un chirurgo li tagliò non per amore dell’arte ma pel caro suono di trecento ducati. Fu deciso ch’eran forti i sospetti del cholera.
Quando la nuova se ne diffondeva per la città, e più certa giorni dopo per altri casi avvenuti, furon varii i pareri quanto gli uomini, varie le voci quanto le lingue; chiudevansi le porte dell’Università; disertavansi i collegi, i licei, le scuole; non echeggiavano più di bei concerti le volte del Carolino. Oh come cangiò ad un tratto l’aspetto della città! Come sparirono e i volti ridenti, e il romore de’ cocchi, e l’allegra veduta del Foro borbonico! L’infernale parola girava per tutte le bocche, risuonava per tutte le orecchie, prendeva tutti gli aspetti fra i fantasmi del timore, fra i motteggi, fra gli scherzi, fra le dispute solenni. E in mezzo a tante diverse passioni il volgo incredulo sprezzava i fantasmi e i timori.
- Effetto della crapula! – gridava, – effetto del vino!
V’era qualcuno più saggio che diceva come ora scrivo;
- Effetto di civiltà!
Vincenzo Linares: Maria e Giorgio o Il Cholera in Palermo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo devastata dal Cholera del 1837.
Nella versione originale pubblicata dalla Tipografia Lao nel 1838. Postfazione del dott. Rosario Atria.
Copertina di Niccolò Pizzorno. 
Prezzo di copertina € 16,00
Disponibile presso La Feltrinelli libri e musica
Disponibile on line su Ibs, Amazon e tutti i siti vendita online.
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it