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mercoledì 21 settembre 2022

Giuseppe Garibaldi: I Trecento. Tratto da: Clelia, ovvero Il governo dei preti. Romanzo storico politico.

La prima voce che s’udì nel loggione, era voce d’uno da noi conosciuto, la voce di Attilio.
Attilio, l’intemerato, a vent’anni era stato con voti unanimi eletto da quei generosi a capitano. Tanto è il prestigio del valore e della virtù, e diciamolo pure, anche dell’avvenenza e robustezza del corpo! E Attilio meritava la fiducia dei suoi compagni. Alla bellezza dell’Antinoo egli aggiungeva il profilo e il cuore del leone.
Dopo aver girato lo sguardo sull’adunanza ed essersi assicurato che tutti erano muniti di un nastro nero al braccio sinistro (segno di lutto per gli schiavi, da non deporsi sino alla liberazione di Roma, e segno di ricognizione dei trecento) Attilio così cominciò:
– Fratelli! Sono ormai due mesi che le soldatesche straniere, unico puntello del papato, devono sgombrare, e non lo fanno. Essi lordano ancora le nostre contrade, e sotto pretesti futili rioccupano le posizioni che già aveano abbandonate quando dovevano uniformarsi alla Convenzione del settembre 1864. Or tocca a noi. Pazientammo diciotto anni, subimmo il doppio giogo, egualmente esecrato, dello straniero e del prete, ed in questi ultimi anni pronti a menar le mani, fummo trattenuti da quella setta ermafrodita che si chiama de’ Moderati, e altra moderazione non ha e non usa che quella d’impedire il fare e il far bene, setta infame e divoratrice, siccome il prete, pronta sempre a patteggiare collo straniero, a far mercato dell’onor nazionale, pur d’impinguare sull’erario dello Stato, che trascina a sicura rovina. 
Di fuori i nostri amici son pronti, e noi accusano di neghittosi, l’esercito, meno la parte legata alla pagnotta, è tutto con noi. Le armi che aspettavamo, per distribuire al popolo, sono giunte e stanno in luogo sicuro, di munizioni ne abbiamo più del bisogno. 
A che dunque tardare più oltre? Qual nuova occasione dobbiamo aspettare? Il nostro grido sia all’armi....
E “All’armi! all’armi!” fu la risposta dei trecento congiurati.
La stanza romita dove forse gli antichi eroi venivano ancora nella notte a meditare sul servaggio delle nazioni, rimbombò al grido dei trecento giovani, che giuravano di voler libera Roma, e l’eco diffuse tra le secolari macerie dello sterminato Colosseo il maschio grido di quella coorte.
Trecento! Trecento, come i compagni di Leonida, come gli eroi dell’antica famiglia dei Fabii, erano i giovani nostri amici, i quali non avrebbero ceduto il loro posto, sia di liberatori, sia di martiri per un impero.
– Che Dio vi benedica, anime predilette, – riprese Attilio – non ebbi mai dubbio dell’unanime eroica vostra risolutezza per l’opera santa! Noi felici, cui la sorte affidò la redenzione dell’antica padrona del mondo, dopo tanti secoli di servaggio e di brutture pretine. 
“Or come ognuno di voi ebbe la sua parte di popolo, suddiviso per rioni, ad educare, così quella stessa parte di popolo sia da ciascuno di voi guidata il giorno della battaglia, che non sarà lontana, il giorno in cui verranno infranti i ceppi della nostra Roma, e risorgerà questo popolo, che il prete, schiuma d’inferno, il prete solo, poteva depravare, corrompere, abbrutire a tal segno, da cambiare il grandissimo fra tutti i popoli, nel più meschino, più abbietto ed ultimo popolo della terra.
“Sì, è stato il prete che ha avuto il merito di educare gli italiani all’umiliazione ed al servilismo. Mentre lui si faceva baciare la pantofola dagli imperatori, chiedeva agli altri esercitassero l’umiltà cristiana; mentre predicava l’austerità della vita, egli sguazzava nell’abbondanza, nella lascivia e nel vizio. Inchini e baciamani, ecco la ginnastica insegnata dal prete al popolo. Per Dio, lo dobbiamo a lui se la metà di noi porta il gobbo od ha la spina dorsale curvata!
“La lotta che siamo per imprendere è santa, e a noi, non solo l’Italia, ma il mondo sarà grato se giungeremo a liberarlo da questa maledizione. Imperocchè tenete per certo che nel mondo intero sarà possibile la fratellanza umana, ove sia liberato dai preti....
A questo punto era arrivato col suo ardente discorso Attilio, quando un lampo improvviso illuminò la vasta navata del Colosseo, come se a un tratto mille torcie si fossero accese per incanto. Al lampo tenner dietro le tenebre, più fitte di prima ed un terribile tuono scosse fino dalle fondamenta la sterminata mole.
Non impallidirono i congiurati, disposti come erano ad affrontare la morte in qualunque guisa, nè rimasero scossi, ed ognuno di loro corse colla destra nel seno a ricercare il ferro. 

Giuseppe Garibaldi: Clelia, ovvero Il Governo dei Preti. Romanzo storico politico. 
L'opera è la riproduzione del romanzo originale pubblicato dai Fratelli Rechiedei Editori, Milano 1870.
Pagine 303 - Prezzo di copertina € 20,00
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Giacomo Pagano: Venerdì, 21 settembre 1866. Tratto da: Sette giorni d'insurrezione a Palermo. Avvenimenti del 1866

Era l’alba di questa sesta giornata di agonia mortale e il fuoco ricominciava vivissimo e per ogni dove.
Il Generale Angioletti dispose anzitutto ogni cosa per mettersi in comunicazione col Palazzo Reale. Ponendo agli ordini del generale Masi il 31° bersaglieri, il 1°, 3° e 4° battaglione del 53° di linea e due pezzi da sbarco, dispose la marcia sul Palazzo per la via delle Croci che è accosto le Grandi Prigioni, onde per via Cavallacci e via Malaspina riuscisse nel sobborgo dell’Olivuzza. Lasciò il capitano di fregata Acton a custodia dei Quattro Venti, base delle sue operazioni. A tergo verso il Monte Pellegrino mandò la compagnia Vigna dei granatieri ad esplorare il terreno, e tolto il comando del 24° bersaglieri, dei quinti battaglioni del 19° e 51° fanteria e di due pezzi di sbarco coi carabinieri, che si trovavano alle Carceri, mascherò il movimento offensivo, che sulla sua destra dovea fare il Generale Masi, mettendo in sulle vie intermedie tra lui e l’Olivuzza i battaglioni del 19° e 51° e collocando in sulla via della Libertà i due cannoni protetti dal battaglione bersaglieri e dai carabinieri. Come aiutante di campo gli prestò valido aiuto il Luogotenente di carabinieri Raffaele Lamponi.
Erano queste in vero buone disposizioni militari. Dimenticava però l’Angioletti che egli era un cittadino italiano; e tale essendo essere dovere di qualunque generale il mantenere i suoi soldati nel rispetto della vita e delle sostanze, sì dei combattenti che dei non combattenti.
La squadra comandata dal contrammiraglio Ribotty avea ripreso il fuoco a granate. Intanto il generale Angioletti sulla via della Libertà di piè fermo attraeva l’attenzione degl’insorti con piccole avvisaglie e con colpi a mitraglia su Porta Macqueda. Erano circa le otto del mattino quando gli pervenne annunzio essere arrivati in porto tre battaglioni del 54° di linea. Fu dato ordine immediatamente di farli sbarcare sulla spiaggia di Romagnolo, perché si tenessero nella linea del fiume Oreto, sulla destra della posizione del Palazzo Reale, in modo da circuire interamente la città e togliere agl’insorti delle campagne che potessero sfuggire per le strade di Bagheria e di Misilmeri.
L’attacco era generale, generale la difesa ed ostinata. La truppa avente alla testa il generale Masi, marciava sull’Olivuzza dove ad ogni passo incontrava torme d’insorti che combatteano valorosamente. Accortosi l’Angioletti del suo arrivo in quel sobborgo diè ordini al Rasponi, maggiore comandante il 5° battaglione del 51°, d’impadronirsi del convento di S. Francesco di Paola, al capitano Acton di lasciare i Quattro Venti per occupare i Quattro Cantoni di campagna, e al maggior Brunetta del 24° bersaglieri, coadiuvato dai pochi granatieri dell’antica guarnigione delle Carceri e dai carabinieri del Luogotenente Lamponi, di correre all’assalto della barricata dei Quattro Cantoni di campagna. Fu uno splendido fatto d’armi eseguito con slancio impareggiabile. Quei bravi soldati assalirono con gran furia né li sospinse alcun intoppo in che pur s’abbattevano. Superate due barricate, gl’insorti per quell’improvviso correre sgomentati non sapeano più da qual parte farsi. A questo sgomento avea da canto suo contribuito il Comandante del Castellammare col tiro dei suoi cannoni diretto contro le Stimmate. Infatti ciò che, per gli ordini contrari del Ribotty, il mercoledì dopopranzo non avea potuto giovare in quel punto riesciva giovevolissimo. Intanto il Maggiore Brunetta, seguito da una cinquantina de’ suoi, più degli altri si avanzava; ma poi ripreso animo le squadre, tornarono in buon numero ad occupare le barricate; e chiusero la via al resto del battaglione, e tolsero al Maggiore Brunetta di potere riunirglisi. Né di questo il valoroso ufficiale si diede gran fatto pensiero. Era stato per alcuni mesi di guarnigione in città e ne conosceva le strade. Procedette quindi sempre avanti alla baionetta e traendo colpi con quella sua truppa ardita che gli tenea dietro. Tutta la via Macqueda infino ai Quattro Cantoni percorse correndo sempre e portando il terrore nel cuor della plebe armata e nei cittadini la speranza di una prossima fine di quell’infausta anarchia. Come vi giunse si fermò, diede alcuni ordini con un sangue freddo incredibile, guastò un poco quella barricata di mobili e scambiando ancora pochi colpi colle bande che erano al Municipio, pel Corso pervenne a Palazzo Reale, due ore dopo l’arrivo della testa di colonna (31° bersaglieri) del Masi. Questi infatti avea colle sue truppe superata la posizione, dispiegando molta bravura ed abilità di comando, e giungeva al Palazzo, ricongiungendo completamente le comunicazioni colla flotta e liberando quella truppa di presidio dal pericolo imminente della fame. Per mezzo del Masi, l’Angioletti facea noto al Generale Carderina che si poneva a’ suoi ordini.
Questo Generale, che avea dato magnifica mostra della propria inettitudine al principio e nel corso dell’insurrezione, parve volesse non lasciare sfuggire nuova occasione di mostrarsi eguale a se stesso. Vano forse un po’ troppo del trovarsi finalmente alla testa di buon nerbo di truppe, immagina di ordinare all’Angioletti, che sgombrasse dalla presa posizione i battaglioni del 54°, desse loro un nuovo imbarco e ne li sbarcasse di nuovo per inviarli a Palazzo Reale.
Ciò militarmente tornava lo stesso che rinunziare ai vantaggi di felici disposizioni di truppe, che racchiudevano la città in una cinta di ferro e, impedendo l’evasione delle bande, offrivano l’agio di troncare d’un tratto quella misera insurrezione.
In sul far della sera di quel venerdì fu ordinato al 31° bersaglieri di prendere d’assalto il Municipio e di ardere la tela appesa ai Quattro Cantoni. Fu detto e fatto. Vennero con fiaccole accese e tirata in giù la tela, cadde, e in breve furon padroni del Municipio dove, al dir di taluni, trovarono uno scribacchino con tutti gli elenchi della forza armata insurrezionale, che si facea pagare dal Comitato. Epperò (la ragione militare è un mistero) il Carderina avea ordinato a queste truppe di non conservare la posizione, limitarsi a disfare la barricata dei Quattro Cantoni e ritornare sul Palazzo Reale!
La catastrofe si avvicinava, e gl’insorti se n’accorgeano. Le due cariche dei bersaglieri fatte nel cuor della città, la liberazione delle Autorità della Provincia e del Comune dalla cinta assediante, il continuo arrivare di truppe faceano avvertito ognuno, che l’anarchia stava per cessare e che tra poco il Governo avrebbe ristabilito l’ordine. Mancanti di munizioni, disperanti ormai dal trovare aiuto veruno dalla cittadinanza, stremati di forze per sostenere in qualsiasi modo una lotta maggiore od eguale a quella già resa vana, gl’insorti non osavano affacciarsi all’esito di quel lor movimento e si ristavano sbalorditi.
Ciò che in quel punto commosse i più influenti capisquadra, fu il pensiero della vita di fuorbanditi che loro naturalmente toccava in sorte per la sicura vittoria delle truppe...

Giacomo Pagano: Sette giorni d'insurrezione a Palermo. Avvenimenti del 1866.
Cause, fatti, rimedi, critica e narrazione. 
L'opera è la fedele riproduzione del volume originale pubblicato da Antonino Di Cristina Tipografo editore (1867)
Pagine 313 - Prezzo di copertina € 21,00
Il volume è disponibile:
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Su Amazon, Ibs, La Feltrinelli.it e tutti gli store online.
Presso La Feltrinelli libri e musica e nelle migliori librerie. 

venerdì 16 settembre 2022

Sabato 17 settembre alle ore 17:30 presentazione del libro Sette giorni d'insurrezione a Palermo presso Laboratorio Sociale Malaspina

 

Domani 17 settembre alle ore 17:30 presso Laboratorio Sociale Malaspina in via Arrigo Boito, presentazione del libro:
"Sette giorni d'insurrezione a Palermo. Avvenimenti del 1866" di Giacomo Pagano. Saggio introduttivo di Santo Lombino.
L'autore, testimone dei fatti accaduti, che dedica la sua opera "Ai veri interessi nazionali", così la presenta:
"Non sentimento di parte, non reazione d’animo contro una sofferta sciagura, non alcuna offesa personale mi spinge a narrare i luttuosi avvenimenti che funestarono Palermo nei sette giorni del trascorso settembre, ma solo mi move il santo affetto ch’io porto all’Italia ed alle libere istituzioni:
Analizzando le cause, che cagionarono tante sventure, esponendo la serie dei fatti che mi fece lagrimare, perché essi hanno insanguinato la mia terra, io non porrò passione di sorta. Non lascierò trascorrere l’animo ai rimproveri ed a vane declamazioni, ché egli sarebbe delitto quando appunto è dovere lo scrivere solo per l’Umanità, che giudica, e per la Storia, che deve registrare. Sgombro il cuore dagli allettamenti del sentire e dalla forza dell’immaginare, io pongo ferma fiducia nell’appello che fo alla giustizia degli Italiani: esso valga a premunire chiunque contro i pregiudizî dannosi e contro la furia del condannare.
Possa così il sangue versato, possano le vite spente, i dolori provati, essere ammaestramento a’ governanti ed a’ governati; e servir di scuola severa alla Nazione, troppo facile a inebriarsi, e poco inchinevole a riflettere!"
Novembre 1866


Pagine 318 - Prezzo di copertina € 21,00
Il volume è disponibile:
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Giacomo Pagano: Domenica, 16 settembre 1866. Tratto da: Sette giorni d'insurrezione a Palermo. Avvenimenti del 1866

Albeggiava appena e, parecchie fucilate si erano avvertite dalla parte che mena dritto a Morreale ed ai Porrazzi. Il Generale Camozzi andava e veniva, girava pei quartieri della G. N. occupati solo da una ventina circa di militi per posto, e senza cartuccie e senza prescrizioni. Egli stesso non ne potea dare, stretto com’era da ordini precisi ed immediati avuti dal Prefetto di non battere a raccolta.
La città dormiva. Il Questore credeva fare atto provvido facendo il niente de’ nienti: e la sua poca forza non riuniva, e non mandava alcuna compagnia di granatieri verso i Porrazzi, e non prendeva veruna previggenza, come se si trattasse di una semplice grassazione.
Tutto ad un tratto ecco sbucare nella via Macqueda dalle strade circostanti Ponticello e Calderai una ventina d’uomini armati con bandiera rossa, facendo fuoco sulla sentinella dell’edificio postale, custodito da quattro soldati. Vicino la Posta è il Palazzo Municipale dove facean la guardia i bersaglieri di G. N. che poco prima erano stati mandati di pattuglia fuori le porte. I pochissimi rimasti non poteano recare soccorso alcuno ai quattro granatieri colti alla sprovvista. Fucilate si scambiarono per un pezzo, restando morto il caporale e ferito un soldato. Il Municipio pensava intanto alla propria difesa. Dalle finestre del palazzo le Guardie Nazionali e i cittadini col Sindaco sbaragliarono gli assalitori con un fuoco gagliardo e spesso. Alcuni caddero, e i rimasti si posero in fuga.
Mentre qui avvenivano queste cose dal rione del Capo sbucava gente armata che pei chiassi e pei vicoli si sparpagliava d’ogni intorno. E un soldato, che solo veniva dal quartiere di S. Giacomo, rimase ucciso. E una cinquantina d’uomini usciva dal chiasso Cartari, presso la via Cintorinai, guidata da un Salvatore Nobile, implicato nel processo Badia e latitante da un anno e mezzo in qua. Squadre in armi penetravano nella città dall’esterno; altre parecchie, già riunite, nell’interno, sbucavano in ogni rione.
Verso le ore sei del mattino tutte le Ispezioni e le Delegazioni di P. S. erano state prese e disarmate; le stazioni dei carabinieri assalite e devastate: e quelli che cadevano nelle mani degli insorti erano portati via prigioni nel Convento dello Spirito Santo, e il convento S. Agostino addivenne tosto il loro quartier generale.
E intanto, pur finalmente! alcuni tamburi della G. N. rullavano disperatamente per alcune delle strade meno pericolose. Era troppo tardi invero!
Questo improvviso movimento che avea tolto ogni aspetto di vera insurrezione e non previsto né creduto, scoraggiava profondamente la cittadinanza e la trovava dislegata ed inerte. Così veniva innanzi la sommossa e si poneva a fronte del Governo che non avea saputo presentirla. La cittadinanza, la quale vedea la plebe partecipare od esser complice del movimento, non volle peggiorare il male col danno della vita e delle proprie sostanze, esponendosi all’ira certa della marmaglia coll’uscire alla spicciolata a combatterla. Accresceva siffatta inerzia la sfiducia nel Governo, l’esempio della sua ingratitudine, della sua poca sapienza. Queste ed altre cagioni di malcontento generale non invogliarono i pigri, né incoraggiarono i deboli, o sforzarono gli onesti a farsi violenza e porre a rischio se stessi e le proprie famiglie per combattere non più i briganti, ma gl’insorti.


Giacomo Pagano: Sette giorni d'insurrezione a Palermo. Avvenimenti del 1866.
Pagine 318 - Prezzo di copertina € 21,00
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martedì 13 settembre 2022

Giacomo Pagano: Sette giorni d'insurrezione a Palermo. Avvenimenti del 1866.

Cause – Fatti – Rimedî – Critica e Narrazione. 
Con saggio introduttivo di Santo Lombino
La sommossa che ebbe inizio a Palermo all’alba del 16 settembre 1866 e durò fino a mezzogiorno del 22, la chiamarono subito del “Sette e mezzo”, utilizzando il nome di un noto gioco alle carte. Fu senza dubbio un moto di piazza che ricalcava lo schema d’azione di quelli che si erano svolti nel capoluogo durante la prima metà dell’Ottocento. Nel 1820, nel 1848 e nel 1860 (e in parte nel 1856), si erano messe in movimento migliaia di persone insorte a una data prefissata e si erano formate centinaia di “squadre” o “squadriglie” armate, sotto la guida di capi popolari riconosciuti, in grado di dare le indicazioni per l’azione e quasi sempre capaci di ricompensare con una paga giornaliera coloro che si impegnavano in modo continuativo nella lotta per le strade, nelle piazze e sulle barricate.
Giacomo Pagano (testimone dei fatti) descrive lo svolgimento della ribellione popolare che sconvolse Palermo con il suo circondario e ripercorre giorno per giorno, quasi ora per ora le tappe del movimento insurrezionale, il formarsi delle squadre e la costruzione delle barricate, gli spostamenti per le strade nelle piazze della città, gli assalti alle carceri, la dura repressione guidata dal generale Raffaele Cadorna. Ne analizza le cause e avanza i suoi rimedi per una pacificazione degli animi, sia a livello generale sia per quanto concerne la realtà dell’Isola, onde evitare il ripetersi di nuove rivolte.
Una discussa pagina di storia d’Italia che ha consegnato ai posteri l’immagine di una Sicilia ingovernabile, ribelle e delinquenziale, dalle forti infiltrazioni mafiose, che non si comprende senza far riferimento agli avvenimenti precedenti all’insurrezione, per riconsegnare alla storia la vera immagine del popolo siciliano, con i suoi pregi e i suoi difetti. 
Pagine 318 - Prezzo di copertina € 21,00 

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Nicolò Perniciaro: Arte e dialoghi di viddanaria a Mezzojuso. (Collana L'Isola a Tre Punte)

A cura di Antonino Perniciaro, con prefazione di Pippo Oddo.

Spiega l'autore
“Arti e dialoghi di viddanaria”, questo è il titolo che ho voluto dare a questo libro, perché per esercitare la professione del contadino ci vuole un’Arte” con la “A” maiuscola.
Ho usato appositamente questo titolo, per indicare e far intendere che non tutti erano capaci di svolgere con perizia le attività proprie del “viddanu”, malgrado che, “ô tempu dû pitittu”, la stragrande maggioranza della popolazione fosse composta da contadini o “viddani”, e che solo ben pochi, quelli che avevano la possibilità di studiare, erano fuori da quel mondo. I figli dei “burgisi” o dei benestanti, a volte a forza di “pirati nto darreri” andavano avanti negli studi pur non essendo capaci di fare la famosa “O cû biccheri”; mentre molti figli di “viddaneddi” che avrebbero avuto le qualità e le capacità di studiare e progredire quindi nella scala sociale, non avendo le possibilità economiche, restavano a fare “i viddani” come i loro genitori; questi erano chiamati “viddani sturiusi”, che erano capaci di trarre frutto e mettere in pratica l’esperienza maturata nei secoli dall’uomo di campagna, svolgendo al meglio, con cognizione e coscienza, le attività agricole, come sapere scegliere bene il momento della semina, preparare con cura il terreno, avendo la conoscenza delle sue qualità e perciò di cosa seminarvi, sapere fare gli innesti, capire quando potare gli alberi e come farlo, sapere trattare i vigneti in tutte le fasi lavorative e poi curare e conservare il vino e l’olio e cosa molto importante, avere cura degli animali che rappresentavano i mezzi con cui svolgere le loro attività, trattandoli non come strumenti ma come compagni di lavoro.
Nicolò Perniciaro

Dalla prefazione del grande studioso di storia e costume della Sicilia Prof. Pippo Oddo
Con il suo siciliano, fedele alla vulgata mezzojusara, l’autore rievoca giorno per giorno la vita quotidiana di una famiglia contadina. Il tempo storico appartiene agli anni 50 del secolo scorso ma i fatti raccontati, nel loro valore simbolico, potrebbero collocarsi in periodi ancora antecedenti. Questo carattere di universalità offre a chi legge inusuali chiavi di lettura per il presente e richiama la necessità di un recupero, se non materiale almeno spirituale, di un rapporto equilibrato fra uomo e natura. L’autore realizza una narrazione, espressione del suo sentire, della vita contadina del novecento in Sicilia. Così, volgendo lo sguardo a un passato recente, come quello che Perniciaro ci descrive con immediato realismo, ci si rende conto dei cambiamenti straordinari, pure avvenuti nel volgere di pochi decenni. Nelle dimensioni ridotte di una realtà microscopica e familiare si notano come di riflesso, i mutamenti intervenuti in tutta la Sicilia dalla seconda metà del XX secolo. E si scoprono storie insospettate, consuetudini ancestrali, tangenti alla Storia. Tradizioni tramandatesi per generazioni e improvvisamente interrotte, che richiamano un mondo -quello contadino- superato dalla storia contemporanea.
Pippo Oddo
Pagine 367 - Prezzo di copertina € 25,00. Arricchito da numerose foto.
Il volume è disponibile: 
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lunedì 5 settembre 2022

R.D.L. 5 SETTEMBRE 1938 N. 1390: Provvedimento per la difesa della razza italiana nella scuola. Tratto da: La civile indifferenza. Le parole di Liliana Segre fedelmente raccolte e trascritte dalle sue testimonianze.


Visto l’art. 3, n.2, della legge 31 gennaio 1926-IV, n.100; 
Ritenuta la necessità assoluta ed urgente di dettare disposizioni per la difesa della razza nella scuola italiana.
Udito il Consiglio dei Ministri; 
Sulla proposta del Nostro Ministro Segretario di Stato per l’educazione nazionale, di concerto con quello per le finanze; 
Abbiamo decretato e decretiamo:


Articolo 1. All’ufficio di insegnante nelle scuole statali o parastatali di qualsiasi ordine e grado e nelle scuole non governative, ai cui studi sia riconosciuto effetto legale, non potranno essere ammesse persone di razza ebraica, anche se siano state comprese in graduatorie di concorso anteriormente al presente decreto; nè potranno essere ammesse all’assistentato universitario, nè al conseguimento dell’abilitazione alla libera docenza. 
Articolo 2. Alle scuole di qualsiasi ordine e grado, ai cui studi sia riconosciuto effetto legale, non potranno essere iscritti alunni di razza ebraica. 

Articolo 3. A datare dal 16 ottobre 1938-XVI tutti gli insegnanti di razza ebraica che appartengano ai ruoli per le scuole di cui al precedente art. 1, saranno sospesi dal servizio; sono a tal fine equiparati al personale insegnante i presidi e direttori delle scuole anzidette, gli aiuti e assistenti universitari, il personale di vigilanza delle scuole elementari.  Analogamente i liberi docenti di razza ebraica saranno sospesi dall’esercizio della libera docenza. 
Articolo 4. I membri di razza ebraica delle Accademie, degli Istituti e delle Associazioni di scienze, lettere ed arti, cesseranno di far parte delle dette istituzioni a datare dal 16 ottobre 1938-XVI. 
Articolo 5. In deroga al precedente art. 2 potranno in via transitoria essere ammessi a proseguire gli studi universitari studenti di razza ebraica, già iscritti a istituti di istruzione superiore nei passati anni accademici. 

La civile indifferenza. Le parole di Liliana Segre fedelmente raccolte e trascritte dalle sue testimonianze, che si compone di due parti: nella prima la testimonianza di Liliana Segre diretta, chiara, in diversi punti commovente, nel suo complesso tragica e “indicibile”. Nella seconda “La dichiarazione sulla razza e le leggi razziali del 1938”: la trascrizione delle leggi razziali emesse il 5 settembre, il 6 ottobre, il 15 novembre, il 17 novembre del 1938 e l’elenco delle successive.
Pagine 176 - Prezzo di copertina € 13,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
Disponibile su Amazon Prime, Ibs, La Feltrinelli e tutti gli store online.
In libreria presso: La Feltrinelli libri e musica. 

Quel 5 settembre 1938... Tratto da: La civile indifferenza. Le parole di Liliana Segre fedelmente raccolte e trascritte dalle sue testimonianze.

Nel 1938 avevo otto anni, andavo alla scuola pubblica di via Ruffini, come una bambina qualunque. 
Abitavo lì vicino.
Ed era la fine dell’estate del 1938 quando mio papà cercò di spiegarmi che non potevo fare la terza elementare in via Ruffini, perchè per le leggi razziali fasciste, vergognose, avevamo perso i diritti civili. 
E fra le leggi razziali c’era il divieto di andare a scuola. 
Mi sentii dire quindi con voce rotta, con voce emozionata, umiliata, da mio papà che io, come tutti i bambini ebrei, tutti gli studenti ebrei delle scuole pubbliche d’Italia, ero stata espulsa. 
Espulsa... 
Voi ragazzi sapete bene che cosa vuol dire essere espulsi da una scuola, alle elementari poi non ne parliamo. Bisogna aver fatto davvero  qualche cosa di molto molto grave nell’ambito scolastico. 
E io, che andavo a scuola con gioia, mi sentii dire mentre eravamo a tavola e c’erano tutti e due i miei nonni:
«Sei stata espulsa dalla scuola perché noi siamo ebrei.»
Fu veramente un colpo gravissimo. Io subito chiesi: 
«Ma perché? Che cosa ho fatto?»
Era un momento tremendo, era soprattutto l’espressione di queste tre persone, che mi guardavano con grande pena, con grande preoccupazione per me. 
Era amore, amore e disperazione. 
Da quel momento cominciai a chiedere a tutti ma perché? perché? perché? perché? Ed ero ossessiva con questo perché, al quale a quel tempo era molto difficile dare una risposta. Soprattutto perchè ai bambini, allora non si parlava così chiaramente come si parla adesso, si cercava di tenerli separati, protetti dalle brutture della vita. 
E quel perché mi ha seguita poi mille volte: ma perché, perché, perché, perchè, perché io non posso più andare a scuola? Perché sono stata espulsa?
Era la colpa di essere nata. 
Oggi fra i miei nipoti ho un piccolo adorato nipotino, che si chiama Filippo, e immagino... se qualcuno, davanti a quella faccina innocente, a quegli occhi puri, a quella mancanza assoluta di malizia e di paura che ancora a quell’età si può avere, così felice dei giocattoli, della bicicletta nuova, del regalo, della festa che ti aspetta... se qualcuno dovesse dire al mio nipotino Filippo che non può più andare a scuola perché è stato espulso. Beh... 
Era incredibile. 
Espulsi furono tutti gli ebrei dalle cariche pubbliche, insegnanti, professionisti, persone che avevano qualche grado nell’esercito, che lavoravano nei Ministeri. Perfino i libri adottati nelle scuole di colti professori ebrei furono cancellati, furono tolti dalle biblioteche comunali, furono tolti dai programmi scolastici. 
Le leggi razziali furono infinite, lunghissime, e andavano dalla impossibilità di tenere piccioni, di vendere stracci se non di lana a quella  di non poter fare l’orefice, il bidello. 
Qualunque cosa era vietata. 
La fantasia di chi le redasse fu così sfrenata, che era veramente difficile trovare una branca qualsiasi in cui fosse possibile stare. 
Si veniva cancellati dagli elenchi del telefono, si veniva cancellati dagli albi professionali, si diventava di colpo cittadini di serie B per poi pian piano...
Mi ricordo che una volta venne a casa la maestra, la mia maestra di prima e seconda elementare, ma non per trovare me, semplicemente perché l’aveva convocata mio papà che le aveva chiesto: 
«Venga a casa a trovare la mia bambina, provi a dirle lei una parola di conforto...»
Lei venne a casa, non mi abbracciò. La sentii che diceva: 
«Io cosa c’entro? Non è mica colpa mia, non le ho fatte io le leggi razziali!»
E quello fu l’inizio dell’indifferenza, di quel «Se una cosa non mi riguarda e riguarda l’altro, non me ne importa niente.»
Cambiai scuola e andai in un istituto privato che mi accettò. 
Andando lì, passavo dalla mia vecchia scuola. 
Di tutte le bambine furono solo tre indimenticabili, che continuarono ad aprirmi la loro casa alle piccole feste, agli incontri per giocare, che mi telefonarono... 
Tutte le altre sparirono nell’indifferenza
I banchi vuoti dei bambini espulsi non fecero sensazione.
Cancellati nell’indifferenza generale.
E cominciò nella mia famiglia, come in tutte le famiglie ebraiche, quel senso di farci sentire diversi: noi che eravamo italiani, patrioti...



La civile indifferenza. Le parole di Liliana Segre fedelmente raccolte e trascritte dalle sue testimonianze, che si compone di due parti: nella prima la testimonianza di Liliana Segre diretta, chiara, in diversi punti commovente, nel suo complesso tragica e “indicibile”. Nella seconda “La dichiarazione sulla razza e le leggi razziali del 1938”: la trascrizione delle leggi razziali emesse il 5 settembre, il 6 ottobre, il 15 novembre, il 17 novembre del 1938 e l’elenco delle successive.
Pagine 176 - Prezzo di copertina € 13,00
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In libreria presso: La Feltrinelli libri e musica.