Il pianterreno del palazzo, nella cui soffitta
eransi rifugiati Odoardo e Maria, abitato
dallo scultore, componevasi di una sola stanza. A destra dello entrare, un focolare in pietra, e per una scaletta di
legno si saliva ad un mezzanino che ricevea la luce dalla stanza istessa. Ivi
erano riposti due meschinissimi letti con pagliericci, l’uno per Genoveffa madre dello scultore, l’altro per se
stesso. Un armadio di legno antico a piccoli cassoni verniciato in nero, un tavoliere,
poche sedie ed una poltrona, eran tutti i mobili. Al capezzale del letto della
madre eravi appeso un crocifisso di avorio
sur una croce di tartaruga guarnita in argento che apparteneva un tempo alla
madre di Genoveffa, e questa lo avea sempre ritenuto come una santa tradizione,
ricordo dei suoi vecchi genitori, e santuario alle sue diuturne e serotine
preghiere. Al di sotto poi nella stanza, due o tre
panche di legno, rottami di marmo, modelli in gesso, scalpelli e scalpellini,
ed una statua non finita rappresentante Ercole, l’eroe di Tebe della Beozia.
Era questo lo studio di Luigi il nostro artista, il quale dopo aver lavorato
molte ore della notte, ora si sdraiava sur un seggiolone a bracciuoli a
riposarsi contemplando, col contento di una prima inspirazione, l’opera del suo genio, che acquistava giorno per
giorno forma e figura.
Luigi non potea dirsi assai bello, ma la sua
persona era molto seducente. La sua testa era,
come direbbesi oggi, un bel tipo per una testa italiana. Avea larga la fronte,
occhi cilestri, ma un po’ ingrottati e penetrantissimi, il suo naso era aquilino
a cui sottostavano un bel paio di baffi neri.
La capellatura pur nera e liscia, e la carnagione bruna. La sua figura alla perfine attiravasi gli sguardi degli uomini sensibili, perchè dal viso trasparivagli l’angosce
ed i tormenti che tutto lo martoriavano. Il cuore di Luigi era stato educato alla
sventura, sin dalla infanzia respirò l’alito della miseria, bevve
al calice delle amarezze, e i suoi primi palpiti non furono che per la memoria
di suo padre, per la madre e per l’arte. Eran questi i sentimenti che
infioravano la vita di Luigi, ed avrebbe tutto arrischiato, per sostenere la cadente
genitrice e procacciarsi il nome di valente nell’arte sua.
Luigi adunque
contemplava l’opera sua; egli avea già terminata la testa del suo eroe, ed
ora se ne stava a riguardarla con quell’estasi e quella ebbrezza di chi è
contento del fatto suo. Sfioravagli il labbro un dolce sorriso; come quello
della vergine il giorno della promessa, ed una lacrima tremolava sul ciglio...
lacrima di desìo e di contento! Luigi era felice.
Eppure egli era povero... ma povero assai. Il
di lui padre ricco ed onesto speculatore
trascinato da bugiardi amici nel vortice di mali affari, fiduciando nella di
costoro buona fede, quando credè più presto preparato un agiato avvenire alla
sua famigliuola, fu costretto a ritirarsi e fallire. Da uomo onorato che era,
cedè tutto ai creditori ed impazzì. Scorsero poche lune, e travagliato dalle
catene in cui giacea, se ne moriva fra gli spasimi e le
angosce, lasciando una
moglie desolata ed un orfanello in sulla strada. La madre ed il figlio per lunghi anni una vita di stenti e di mortificazioni. Ancor bambinello, Luigi, nel più fitto inverno, vedeasi ronzare per quelle casette alla Kalsa intirizzito dal freddo e colle lacrime agli occhi , ora con un fardellino di oggetti a vendere, ora un prestito a dimandare, e quindi tornare, quando avea fatti quattrini, allegro alla madre, che lo satollava con una buona fetta di pane ed un po’ di formaggio, che dovea saziarlo, sino alla dimane, ed intanto
la buona madre non lasciava di educarlo e d’insegnarlo a leggere e scrivere; ed anzi il curato della vicina parrocchia lo iniziava in quei primi rudimenti, e le mille volte la lezione finiva con un bel piatto di legumi che l’orfanello dividea colla madre.
la buona madre non lasciava di educarlo e d’insegnarlo a leggere e scrivere; ed anzi il curato della vicina parrocchia lo iniziava in quei primi rudimenti, e le mille volte la lezione finiva con un bel piatto di legumi che l’orfanello dividea colla madre.
A quindici anni Luigi era un bel giovanetto, ma ignaro di se e del suo avvenire. Già da qualche anno, tratto dal suo genio, nelle ore di ozio baloccava con della creta formandone ora un cavallo, ora un animale, or una figura, e quindi si era posto a studiare scultura sotto la direzione di un nostro valente concittadino. Però dovea pensare giornalmente come sfamar se e la sua buona madre, né l’arte intrapresa promettevagli da vicino fornirlo del bisognevole. Pensò suo malgrado adunque abbandonarla, ed ebbe un posto di scritturale presso la casa di un trafficante a pegni, val quanto dire un marcio usuraio.
Colà passava molte ore del giorno a schiccherar cifre e poi cifre, ch’eran sangue e poi sangue di tanti poverelli. Ma era tanto e sì tenace l’istinto che chiamavalo alla scultura, che riducendosi a casa nella sera, stanco delle molte ore spese a quel noioso e crudele travaglio, ributtante per se stesso e per l’umanità, prendeva un pezzetto di legno e della creta, e modellava teste e gambe e braccia, e passava in siffatta guisa alquante ore della notte. Però questa triste continuità di noie e di dolori, di sforzi e di fatiche, questo contrasto permanente del suo cuore e della sua posizione affralirono talmente il di lui spirito che si ammalò! Pensate con che cuore la povera Genoveffa, si stava al pagliericcio del figlio! Quante lacrime dovè ella versare al pensiero della di lui perdita, e questo pensiero presentavasi più funesto all’animo di Luigi, chè avrebbe lasciata sola e senza speranza la madre!
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