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giovedì 23 novembre 2023

Filippo La Torre: Morte di un bambino di campagna - Tratto da: La primavera della strummula. Romanzo.

 
Non avrei potuto più fare gare di nuoto nelle gebbie con i miei amici. Il rammarico mi restava dentro, silenzioso. Mi torceva lo stomaco. Avevo imparato tuffandomi dal bordo sempre viscido di quelle vasche. In abbrivo raggiungevo la sponda opposta e i brividi si spartivano in egual modo tra l’acqua fredda e la paura. Le prime volte la distanza tra le due sponde era di quattro metri e mi sembrava un’eternità, poi cambiai gebbia per una di cinque e finalmente raggiunsi l’infinito a sei, nella grande vasca chiamata con dispregio gebbiazza.
A ragion veduta non godeva di buona fama: vi era morto un bambino, annegato. Lo trovarono affunciato come un tappo di carne molle nello scarico che sfociava in un canale. Una spinta insufficiente delle gambe o un colpo di reni dato male ci avrebbe fatto colare a picco senza possibilità di risalita, ammantati da un tetto liquido. Non sempre c’era con noi un adulto per intervenire in caso di pericolo. Imparai in breve tempo a galleggiare. Ne bevvi tanta d’acqua putrida mista a veloci pulci d’acqua, puzzolente di malaria e di morte, ma non ricordo mai di avere avuto problemi intestinali. Forse perché, in quel tempo, metà della mia forzata dieta giornaliera era a base di limoni grattugiati con dolcezza sulla ruvida pietra d’Aspra. Allora, anche se bambino, ne avevo istintiva consapevolezza e i limoni liberati dalla scorza, li addentavo avido con i miei incisivi forti e taglienti dallo smalto vivo e delicato.
Ci sapevo fare, eccome! Gareggiavo anche con i più grandi e quello stupido di Peppino Macaluso morì nella gebbia profonda di don Ciro solo per avere osato sfidarmi. Era testardo e volitivo, Peppino, e aveva solo otto anni. Voleva prendere più pietre di me sul fondo della vasca e il lippo traditore lo avviluppò alle gambe e non lo fece risalire più. Forse aspettammo troppo e la morte lo abbracciò. Guardavamo le bollicine che salivano, salivano e forse parlavano, forse gridavano lanciandoci messaggi lancinanti di aiuto che non conoscevamo, finché scomparvero in un gorgoglìo. L’acqua rimase immobile e senza più voce. L’incoscienza della nostra giovane età si arrogava il potere dell’immortalità e l’idea della morte, a cinque anni, nemmeno ci sfiorava. Anciluzzu ed io ci tuffammo e lo ripescammo, sporco di fango, appiccicato dappertutto che sembrava colla. Eravamo convinti che Peppino scherzasse, che fingesse di essere morto e strantuliannulu gli dicevo:
«Peppino, ora finiscila. Amunì, arruspigghiati!»
Lo pizzicavo sulla faccia fino a fargli male ma Peppino era morto per davvero e forse lo avevo sempre saputo. I filamenti verdi del lippo che aveva respirato gli fuoriuscivano come radici sottili sia dalla bocca sia dal naso. Diventai freddo, anche se il sole picchiava sulla mia testa senza pietà. Inutilmente cercai conforto per me stesso. Le labbra mi tremarono, prossime al pianto...

Filippo La Torre: La primavera della strummula. Romanzo. 
Pagine 270 - Prezzo di copertina € 22,00
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