Di fronte alla piazza
marina a Palermo, sorge un bellissimo fabbricato di stile toscano a tre piani,
vestito di stucco lucido, guardate le finestre da verdi gelosie e adorno il vestibolo
da uno spaziosissimo portico ricco di colonne, d’intagli, arabeschi, con lo
stemma reale nel centro, e chiuso da una ricchissima inferriata fusa a
fantasia. Ai lati sorgono due smisurati candelabri dello stesso metallo, lavorìo
dei nostri artigiani e delle fonderie nostre.
Sul frontone del portico a
lettere di rame dorato leggesi – Reali Finanze.
Questo
palazzo fu eretto nel 1578, e poi fu destinato a servire per le pubbliche
prigioni, e prendea nome di Vicaria. La sua forma era quale osservasi tuttora, ma la sua figura era
ben diversa. Allora non sorgeano colonne scannellate a sorreggere l’ampiezza
del portico ma invece aprivasi un meschinissimo portone raccomandato a due o
tre ordini di grate di ferro, e grate di ferro spesse e replicate stavano in
luogo delle attuali linde e leggiere gelosie. Allora non eranvi
candelabri e colonnette e intagli ed arabeschi, ma due sole fontane di marmo ad
uso pubblico, e qualche lapide su cui, leggevasi il nome di Diego Enriquez de
Guzman conte di Albadelista. Al portone, alle grate succedevano il cortile e
le scale quali osservansi tutt’ora se non che meno linde e luride, come più
triste e più barocco era l’insieme del palazzo, e parea che anco l’architettura
contribuisse alla laidezza del locale, alla squallida miseria di un buon
migliaretto di delinquenti ed inquisiti e condannati di tutte le forme, di
tutti i modi, di tutti i delitti. Quel fabbricato era un osceno contrasto, tra la
imponenza del nostro Toledo e la meschinità e luridezza della sua forma, una
anomalia topografica per dir così, un errore di scopo.
Quella sera che Pietro e
Luigi furono arrestati come il lettore conosce, dopo un lungo interrogatorio
sostenuto in presenza del capitano d’arme, in persona che per forza o per amore
volea farne di quei due disgraziati i compagni di un fuor bandito come diceva,
verso la mezzanotte furono condotti alla Vicaria, e posti separatamente a
carcere duro, volgarmente detto fra noi camera
serrata.
Queste
prigioni, o a meglio dire questa specie di sepolture, erano di forma bislunga,
ed alte pressoché la statura regolare di un uomo. Aveano un piccolissimo
pertugio che malamente chiamavasi finestrino a discapito della nostra filologia
e della nostra architettura, e vi si entrava da una stretta e bassissima
porticina, raccomandata a due o tre buonissimi chiavistelli e catenacci. Una
luridissima stuoia per terra che rigurgitava acqua, inzuppata com’era da una
soperchiante umidità, facea le funzioni di letto, ed un accurato lavorio di
ragno suppliva alla coltrice. Altri mobili non ve n’erano, che l’angustezza
del locale nol permetteva mica.
Il lettore
visiterà con noi uno a uno i nostri due sventurati amici.
Luigi quando fu spinto ivi
dentro, rifinito di forze dal lungo cammino e dalle battiture che eran state
spesse e dolorose, brancolò fra quella oscurità, strisciando a tentoni i piedi
sul terreno, si accorse di quel poco soffice origliere e vi si accovacciò. La
sua mente
perdevasi in un caos di tristi e strazianti pensieri, tanto che abbandonava
momentaneamente i malori del suo corpo, ed alzavasi furiosamente tutto a una
volta, ma senza una idea fissa, senza una risoluzione, senza uno scopo, e poi
ricadeva, e piangeva, e singhiozzava. Ripensò la sua catastrofe della sera, la
beneficenza del Principe,
il suo amico che credea averlo trascinato a quella nuova disgrazia ed
inattesa, a Maddalena, ma in cima a tutte queste care e sciagurate rimembranze,
stava la madre, la povera Genoveffa, di cui ne ignorava la fine. Egli la vedea
disperata, abbattuta: agonizzante, bella però nel suo dolore e nel suo
abbattimento, quanto la sublime donna ai piedi del Calvario, ma poi rincoravasi
allargando il cuore alla speranza fiduciando nella sua innocenza, e
raccomandandosi ai suoi santi protettori, e poi avvilendosi novellamente e corrucciandosi,
sonnacchiò dolorando tutta la notte.
La dimani un raggio di debolissima luce che
frangevasi alle spranghe del finestrino illuminò le pareti di quella stanza. A
Luigi parve più orribile e strana che non immaginolla nella oscurità.
Il tetto era gocciolante acqua e cosparso in molti siti da ragni, e da
fuligini, le murate erano ruvide e sporche, se non che in qualche punto
osservavansi, quasi imbianchite e raffinate dallo strofinio di una lima, ed erano talune righe
come una scrittura.
Luigi,
anco nel suo dolore fu colpito a tal vista, e facendosi puntello colla mano,
sinistra alzossi
dalla sua positura e lesse.
“Infelice colui che in
questa terra non seppe ispirare che odio, ma
infelicissimo quegli che abbisogna della pietà altrui – settembre 179..” e al
fianco: “I costumi non si migliorano con una legge penale, e chi tutto tende a
riformare, nulla riforma – 18...” Queste, poche righe erano dell’istessa mano
e scritte a lapis e ricalcate. Più sotto, poi vidde incisi i seguenti versi, ed
erano incisi e non altrimenti, e non col bulino o qualche altro
strumento dell’arte, ma con un semplicissimo chiodo.
E
tanto valse il tremito
Di un
scellerato male
M’eran
sì diri i palpiti,
Ch’esterrefatta,
e frale
L’alta
possente e provvida,
Natura ammutolì.
D’atra bufera al fremito
Per se tremaro i figli,
A’ padri ansanti esanimi
Mancarono gli ausigli,
Fu visto un tetto accogliere
Chi visse, e chi morì.
La poesia era continuata,
ma vedeasi cancellata e rotta dalla umidità, e del suo seguito, non leggevansi
che altri due versi:
D'accatastate vittime
Morte trionfa, e sta.
E
sotto 18... Era forse la cifra del millesimo, ma non poteasi leggere
il rimanente mancamento non procacciato dalla mano del tempo, o dalle
gocciolature dell’acqua, ma dal pentimento forse o dal proposito dell’autore.
Luigi
dopo tal lettura fu costretto per un momento
abbandonare l’idea terribile della sua sconsolata posizione, scordò se stesso,
e rivolò col pensiero agli autori di quelle poche righe, che
egli nella sua fantasia credé essere non oscuri e volgari,
ma di classe elevata ed istruita: e qui un diluvio di
considerazioni morali occuparono la di lui
mente...
Benedetto Naselli: I misteri di Palermo.
Pagine 274. Prezzo di copertina € 21,00
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