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giovedì 22 ottobre 2020

Vincenzo Linares: Cosa non si disse all'estero? Tratto da: Maria e Giorgio o Il Cholera in Palermo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1837 devastata dal Cholera

Quando queste cose fra noi avvenivano, ne correva la voce all’estero ben varia e diversa. Qua si soffriva, si piangeva, si moriva, colà si creavano le più strane fantasie: qua un’orribile tragedia, colà una ridicola farsa. Si narrarono cose orrende, si dipinse Palermo in preda alle stragi, alle rapine, agl’incendi, preda di una plebe insolente. Ministri della fama furono i giornali d’oltremonte, e la fama colle sue mila trombe ne sparse la voce dovunque. 
Nel secolo di Victor Hugo ogni talento è una fantasia, ogni scrittore un romantico: nè c’era miglior soggetto di questo in un tempo in cui il brutto e il grottesco son di moda, e le scritture riboccano di boia, di veleni e di mannaie. Mano dunque alla penna, anzi a cento penne; mano alla descrizione, in cui il secol nostro è così inventivo e prodigioso. Quindi il dramma, il romanzo o la tragedia (come volete chiamarlo) divenne più vivo e animato: Palermo teatro di orrende scene: le strade insanguinate, le case incendiate, le teste de’ medici galleggianti pel mare, perché ogni dramma dee aver le sue teste: quindi il Capo del Governo trucidato, perché una catastrofe al dramma era pur necessaria. 
Tutto fu raccolto con estrema pazienza ciò che si era detto e non detto, ciò ch’era avvenuto e non avvenuto: ci furon morti, ci furon stragi, ci furon veleni, ci fu ancora la chiesetta (idea romantica!) dove si erano riuniti gli assassini al modo dell’ultimo canto della Gerusalemme, e dove fu accanito  il combattimento, e decisiva la vittoria pei soldati, quei soldati che grazie a Dio non ebbero qui fra noi occasione di tirare una fucilata. 
Ma chi pensava allora tra noi a sì strani aborti di fantasia? Chi dolevasi di tante calunnie? Anzi che sdegno quell’effetto produssero che suole la vista di una ridicola farsa; e se ripetevansi egli era fra le risa e il contento; sì fra le risa e il contento, che già cessava il divino flagello. Agosto sorgeva con più lieti auspici. 
Tanto avea fatto un mese di sventura, tanti affetti destati, tanti odî sbanditi; un mese era per noi un secolo, ma un secolo di pene e di sventure. Trentamila uomini eran caduti, il fior della bellezza, il fior delle lettere e delle scienze: Scinà, quel sole della nostra letteratura, Bivona il botanico, Palmeri lo storico-economista, Foderà il nostro Cuiacio, Greco il medico, Tranchina lo scopritore del nuovo sistema d’imbalsamazione, Costantini il poeta, Pisani, Di Giovanni, Riolo, ed altri tutti onore e decoro di questa nostra patria. 

Vincenzo Linares: Maria e Giorgio o Il Cholera in Palermo.
Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo devastata dal Cholera del 1837.
Il volume è la fedele trascrizione dell'opera originale pubblicata nel 1838 dalla Tipografia Francesco Lao. Postfazione del dott. Rosario Atria, cultore di Letteratura italiana nell'Università degli studi di Palermo.
Prezzo di copertina € 16,00
Copertina di
Niccolò Pizzorno
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Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito ibuonicuginieditori.it (spedizioni in tutta Italia)
Disponibile su Ibs, Amazon e tutti i siti vendita on line.
In libreria presso La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133, Palermo)

Vincenzo Linares: Il timor panico. Tratto da: Maria e Giorgio o Il Cholera in Palermo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo devastata dal Cholera del 1837

Il popolo, come vi ho detto, da che si sparse la nuova fatale fece orecchie da mercante, rimase incredulo alle buone ragioni, ai buoni consigli; emise anzi la sua sentenza: non esservi cholera. Ad accreditar la quale assai valse l’incertezza de’ medici, lo sfrenato gridare di alcuni anche fra loro, che gli era un mezzo di far danaro. Il sospetto corso di bocca in bocca, agitato e discusso in varii crocchi divenne una certezza: nè giovò a distruggerlo il fatto stesso, i cadaveri che passavano per le strade, lo sperpero generale, la morte d’illustri vittime. Fermo nel suo proposito spregiava la presenza del morbo, mangiava, beveva, rideva gridando:
- Vedete come si cura il cholera! 
Io potrei contarvi più d’un fatto funesto, che seguì questa insana aberrazione di mente, ma allora dicevasi “È morto del vino, dello stravizzo.” Bel modo in vero di ragionare, che persuadendo gli eccessi trovava negli eccessi la causa del funesto avvenimento. La quale incredulità accrescendo la crapula non poco forse contribuì all’aumento del morbo. E questo era il minor male, perché in sostanza non si possono obbligare gli altri a pensare come volete; e se male faceano, lo faceano per sè stessi: il peggio fu che non si contennero allo stravizzo, ma scoppiarono in odio ed in sarcasmi contro i medici.
- Vedete questi dottori; ora vi danno un rimedio, ora un altro; ora c’è cholera, ora non c’è cholera; oggi è epidemico, domani è contagioso. Eh! gatta ci cova! Vogliono malattie, vogliono ospedali, chi sa che cosa essi vogliono! 
Il morbo intanto, sebbene lentamente, cresceva e con lui altri mali non meno funesti. Tutto ad un tratto cessò il lavoro, cessò il commercio, l’annona rincarì, il monopolio fu nelle piazze: il popolo si vide privo di mezzi e di soccorsi. Quinci doglianze, quinci sinistri augurî e voci di spavento. Il popolo pria dominato da un cieco scetticismo, poi atterrito dalla miseria si diede in braccio a terrori di fantasia, al che contribuirono non poco le circostanze! Un teschio fu trovato nel cancello del Duomo, varii cartelli minaccevoli per le mura; qualcuno insolentiva per forza togliendo il pane ai venditori, di che la fama pel momento magnificava la violenza ed il numero: le quali cose operate da pochi, che volean pescare nel torbido, lungi d’incitare atterrivano. Nulla veramente di reo si macchinava, come il fatto istesso ha dimostrato, nulla era di positivo tranne il timore del disordine. 
I magistrati della città, i sanitarî e la pubblica forza operavano dal canto loro con quella prudenza che i tempi volevano. Si chiudevano le case degli appestati, si portavano a lazzeretto le persone sospette, si promuoveva per quanto era possibile la salubrità e l’abbondanza delle vettovaglie: l’annona rincarita fu in sulle prime moderata, finchè diffuso poi il morbo, ruppe ogni freno l’ingordigia dei venditori: si profumavano le piazze e i luoghi immondi; si pubblicavano avvisi prescriventi un metodo più esatto di vita e misure di cautela. Fu raddoppiata la vigilanza, raddoppiata la pubblica forza, richiamata dalle provincie buona mano di soldati d’arme, gente di mal affare arrestata; punito solennemente quel solo che avea dato il mal esempio di rubare il pane nella piazza, con pronta pena se non approvata dal buon senso, certo dalle circostanze che erano difficili: le feste che chiamano folla di popolo proibite pel doppio oggetto della pubblica salute e della tranquillità pubblica: furon cacciati via i legni venuti da Napoli, ancorati al nostro porto. Le quali saggie e prudenti misure impedirono disoneste voglie e disordini; ma non bastarono a togliere l’agitazione degli animi che cresceva collo scorrer de’ giorni. 
Ecco gli eccessi del popolo; poco avanti non badava ad un male presente, ora tremava di un pericolo futuro. Col cadere del giorno ventitrè parvero avverarsi i sinistri augurj. Come, quando e da chi, s’ignora; certo sorse una gran voce di scoppiato tumulto, sorse a un punto dall’uno all’altro lato della città. Quanti erano per le strade correvano a tutta furia, gridavano a piena gola, fuggivano come se la città fosse posta a ferro ed a fuoco. Invano gridavasi “è nulla è nulla” invano la pubblica forza sboccando da tutti i lati fermava i fuggenti, cercava di rianimare gli animi atterriti: fu generale il trambusto. 
La pressa maggiore era, appunto, nel luogo ove si trovavano i nostri personaggi: ei si videro urtati e assordati da una moltitudine di persone, che scompigliata si aggirava per la chiesa. Ognuno faceasi avanti per gittarsi alla porta; qua peggio: gente di fuori, gente di dentro, quella irrompeva, questa lanciavasi, e nell’urto accresceva il terrore e lo scompiglio. Don Bartolo fu sbattuto sopra una panca, Pasquale trasportato dalla folla venne a rotolarsi nella gradinata della chiesa; solo rimasero avanti il prete, che avea avuto la forza di resistere a tanta furia, la fanciulla tenendosi stretta alle sue ginocchia, e un giovane che in atto rispettoso le stava allato. Il prete credendo che ei fossero i fidanzati:
- Non è tempo di nozze!  – lor disse e andò via frettoloso. Maria alzò la testa, guardò il giovine che le era allato, e quasi dubitando della sua vista gli chiese:
- Sei tu, Giorgio?

Vincenzo Linares: Maria e Giorgio o Il Cholera in Palermo. 
Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo devastata dal Cholera del 1837. 
Il volume è la fedele trascrizione dell'opera originale pubblicata nel 1838 dalla Tipografia Francesco Lao. Postfazione del dott. Rosario Atria, cultore di Letteratura italiana nell'Università degli studi di Palermo. 
Prezzo di copertina € 16,00
Copertina di Niccolò Pizzorno.
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito ibuonicuginieditori.it (spedizioni in tutta Italia)
Disponibile su Ibs, Amazon e tutti i siti vendita on line.
In libreria presso La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133, Palermo)

Espulsa... tratto da: La civile indifferenza. Le parole di Liliana Segre fedelmente raccolte e trascritte dalle sue testimonianze.

Arrivò come uno Tsunami, oggi si direbbe, un temporale violentissimo, lo snocciolarsi di quelle prime avvisaglie, come quando sta per venire un temporale e ci sono i tuoni lontani, i lampi... ma speriamo che forse non avverrà, non pioverà qui... le avvisaglie di un antisemitismo che non si era sentito prima in Italia, non si era recepito assolutamente.
Ed era la fine dell’estate del 1938 quando mio papà cercò di spiegarmi che non potevo fare la terza elementare in via Ruffini, perchè per le leggi razziali fasciste, vergognose, avevamo perso i diritti civili. E fra le leggi razziali c’era il divieto di andare a scuola. 
Mi sentii dire quindi con voce rotta, con voce emozionata, umiliata, da mio papà che io, come tutti i bambini ebrei, tutti gli studenti ebrei delle scuole pubbliche d’Italia, ero stata espulsa. 
Espulsa... 
Voi ragazzi sapete bene che cosa vuol dire essere espulsi da una scuola, alle elementari poi non ne parliamo. Bisogna aver fatto davvero  qualche cosa di molto molto grave nell’ambito scolastico. 
E io, che andavo a scuola con gioia, mi sentii dire mentre eravamo a tavola e c’erano tutti e due i miei nonni:
«Sei stata espulsa dalla scuola perché noi siamo ebrei.»
Fu veramente un colpo gravissimo. Io subito chiesi: 
«Ma perché? Che cosa ho fatto?»
Era un momento tremendo, era soprattutto l’espressione di queste tre persone, che mi guardavano con grande pena, con grande preoccupazione per me. 
Era amore, amore e disperazione. 
Da quel momento cominciai a chiedere a tutti ma perché? perché? perché? perché? Ed ero ossessiva con questo perché, al quale a quel tempo era molto difficile dare una risposta. Soprattutto perchè ai bambini, allora non si parlava così chiaramente come si parla adesso, si cercava di tenerli separati, protetti dalle brutture della vita. 
E quel perché mi ha seguita poi mille volte: ma perché, perché, perché, perchè, perché io non posso più andare a scuola? Perché sono stata espulsa?
Era la colpa di essere nata. 
Era incredibile. 
Espulsi furono tutti gli ebrei dalle cariche pubbliche, insegnanti, professionisti, persone che avevano qualche grado nell’esercito, che lavoravano nei Ministeri. Perfino i libri adottati nelle scuole di colti professori ebrei furono cancellati, furono tolti dalle biblioteche comunali, furono tolti dai programmi scolastici. 
Le leggi razziali furono infinite, lunghissime, e andavano dalla impossibilità di tenere piccioni, di vendere stracci se non di lana a quella di non poter fare l’orefice, il bidello. 
Qualunque cosa era vietata. 
La fantasia di chi le redasse fu così sfrenata, che era veramente difficile trovare una branca qualsiasi in cui fosse possibile stare. 
Si veniva cancellati dagli elenchi del telefono, si veniva cancellati dagli albi professionali, si diventava di colpo cittadini di serie B per poi pian piano...
Mi ricordo che una volta venne a casa la maestra, la mia maestra di prima e seconda elementare, ma non per trovare me, semplicemente perché l’aveva convocata mio papà che le aveva chiesto: 
«Venga a casa a trovare la mia bambina, provi a dirle lei una parola di conforto...»
Lei venne a casa, non mi abbracciò. La sentii che diceva: 
«Io cosa c’entro? Non è mica colpa mia, non le ho fatte io le leggi razziali!»
E quello fu l’inizio dell’indifferenza, di quel «Se una cosa non mi riguarda e riguarda l’altro, non me ne importa niente.»
Cambiai scuola e andai in un istituto privato  che mi accettò. 
Andando lì, passavo dalla mia vecchia scuola. 
Di tutte le bambine furono solo tre indimenticabili, che continuarono ad aprirmi la loro casa alle piccole feste, agli incontri per giocare, che mi telefonarono... 
Tutte le altre sparirono nell’indifferenza. 
Era molto dura passare da lì e vedere questi gruppetti di bambine che mi segnavano col dito e dicevano: 
«Quella lì è la Segre, non può più venire a scuola perché è ebrea...» 
Sono sicura che non sapessero che cosa significa essere ebree. 
I banchi vuoti dei bambini espulsi non fecero sensazione.
Cancellati nell’indifferenza generale.

La civile indifferenza. Le parole di Liliana Segre fedelmente raccolte e trascritte dalle sue testimonianze a cura de I Buoni Cugini editori. 
Segue, in appendice, il testo delle leggi razziali del 5 settembre 1938 e seguenti con le foto dei giornali dell'epoca.
Pagine 176 - Prezzo di copertina € 13,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (spedizione in tutta Italia)
Disponibile su Ibs, Amazon e tutti i siti vendita on line. 

lunedì 19 ottobre 2020

Vincenzo Linares: La civiltà. Tratto da: Il Cholera in Palermo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1837 devastata dal cholera.

Poco dopo all’uscire dal giardino mi fu nota la cagione di quel bisbiglio, di quello spavento. Era il sette giugno, e il formidabile malore, che da venti anni percorre l’Europa, scoppiava inopinatamente a disertare la bella Palermo. Due miserabili marinari (Angelo Tagliavia e Salvadore Mancini) giacevano i primi sul letto di morte: il perché lo spavento e il bisbiglio prendevano un carattere più generale ed aperto a misura ch’io mi veniva raccostando alla città. La folla si avviava al quartiere della Kalsa; colà si alzavano profumi, si affaccendavano colà guardie, soldati, medici, magistrati, e un codazzo di popolo più incredulo che atterrito dal presente pericolo.
- Son morti di cholera!
- Di cholera?
- Ma che cholera!
- Son vivi!
- Dagli a bere un bicchieretto di quello... eh! staran bene!
- Gli ammazzano con quei profumi, gli ammazzano! 
Queste cose e molte altre correvano per le bocche di coloro che stavano lontani dalla scena; gli altri, che erano nella strada, si affollavano alla porta della casa senza cautela, senza cautela entravano dove giaceva uno degl’infelici già fatto cadavere, ne toccavano le vesti ed anche il corpo; e non vedendo i terribili segni indicati da’ medici, nè uscirne cosa che potesse al momento farli pentire dell’atto sconsigliato, scoppiavano in iscrosci di risa. Alcuni si affrettavano temendo la burrasca di trasportar casse, mobili, tavole e che so io. 
- Ohè largo!
- Il medico, il medico! 
Tutti voltarono gli occhi alla porta, tutti si fecero da canto: entrò il medico, anzi non entrò, restossi avanti la porta a dieci palmi (misura legale!) del cadavere, fissò gli occhi spalancati sul letto di morte, guardò meglio con la lente per due minuti, fece una contorsione di labbra, gittò un largo fiato dal naso, si pose un fazzoletto alla bocca, e via. La qual cosa fu motivo di risa e di spavento nella folla. 
- Vedesti? gli è fuggito! 
- Dunque è cholera!
- Non conosciamo meglio de’ medici che cosa sa fare il vino?
- Effetto di bettola!
- Effetto di vino! 
La strada intanto fu cinta di guardie, chi era dentro restò dentro, uomini, donne, vecchi, giovani, novanta circa, la gente di fuori in parte si disperse, in parte restò con animo di vederne la fine. I magistrati davano forti provvedimenti, una commissione medica si preparava a fare la sezione de’ cadaveri. Furono questi portati di notte al Lazzeretto e distesi sopra uno scoglio. La commissione a dieci palmi di distanza (misura legale!) osservò i cadaveri con cannocchiali e con lenti, un chirurgo li tagliò non per amore dell’arte ma pel caro suono di trecento ducati. Fu deciso ch’eran forti i sospetti del cholera. 
Quando la nuova se ne diffondeva per la città, e più certa giorni dopo per altri casi avvenuti, furon varii i pareri quanto gli uomini, varie le voci quanto le lingue; chiudevansi le porte dell’Università; disertavansi i collegi, i licei, le scuole; non echeggiavano più di bei concerti le volte del Carolino. Oh come cangiò ad un tratto l’aspetto della città! Come sparirono e i volti ridenti, e il romore de’ cocchi, e l’allegra veduta del Foro borbonico! L’infernale parola girava per tutte le bocche, risuonava per tutte le orecchie, prendeva tutti gli aspetti fra i fantasmi del timore, fra i motteggi, fra gli scherzi, fra le dispute solenni. E in mezzo a tante diverse passioni il volgo incredulo sprezzava i fantasmi e i timori.
- Effetto della crapula! – gridava, – effetto del vino! 
V’era qualcuno più saggio che diceva come ora scrivo;
- Effetto di civiltà! 
La città intanto dopo il primo spavento erasi abbandonata a belle illusioni per la tregua che seguì il caso fatale. Sei giorni interi eran passati senz’altri accidenti, già tornava la calma, si rideva del temuto pericolo, e si rianimavano le sale ed i passeggi. Ma la subita morte del medico Angileri fè svanire ogni mal concepita speranza, e il giorno medesimo e quelli appresso altri casi avvennero che non fecero più dubitare della temuta calamità. La certezza sconvolse allora le menti, e si pensò solo a mezzi di salvezza e di cautela, e tutti si provvedevano di medicine, e tutti raccoglievano vettovaglie, e folle di persone popolavano le campagne, e i villaggi vicini; i ricchi si barricavano come in castelli; i provinciali salvavansi ne’ loro nativi paesi, e carri senza fine trasportavano robe e masserizie, e carrozze e cavalli partivan volando per ogni punto, e per le strade, nelle campagne, nelle case, ne’ monasteri, nei conventi, dovunque era un andare, un venire, un chiedere, un temere, un dolersi, uno sgombrar di persone, un iscansare il contatto, un fuggire. E il volgo incredulo spregiava solo i timori ed i pericoli, e i saggi ripetevano: Ecco gli effetti della civiltà. 


Vincenzo Linares: Maria e Giorgio o Il Cholera in Palermo. 
Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo devastata dal Cholera del 1837. Il volume è la fedele riproduzione dell'opera originale pubblicata nel 1838 dalla tipografia Francesco Lao. 
Postfazione del dott. Rosario Atria, cultore di Letteratura italiana nell’Università degli Studi di Palermo.
Copertina di Niccolò Pizzorno.
Pagine 163 - Prezzo di copertina € 16,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (spedizioni in tutta Italia € 2,90) 
Disponibile su Ibs, Amazon e tutti i siti vendita online. 
In libreria presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133 - Palermo)