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venerdì 3 maggio 2019

Benedetto Naselli: La Vicaria. Tratto da: I Misteri di Palermo

Di fronte alla piazza marina a Palermo, sorge un bellissimo fabbricato di stile toscano a tre piani, vestito di stucco lucido, guardate le finestre da verdi gelosie e adorno il vestibolo da uno spaziosissimo portico ricco di colonne, d’intagli, arabeschi, con lo stemma reale nel centro, e chiuso da una ricchissima inferriata fusa a fantasia. Ai lati sorgono due smisurati candelabri dello stesso metallo, lavorìo dei nostri artigiani e delle fonderie nostre.
Sul frontone del portico a lettere di rame dorato leggesi  “Reali Finanze”.
Questo palazzo fu eretto nel 1578, e poi fu destinato a servire per le pubbliche prigioni, e prendea nome di Vicaria (14). La sua forma era quale osservasi tuttora, ma la sua figura era ben diversa. Allora non sorgeano colonne scannellate a sorreggere l’ampiezza del portico ma invece aprivasi un meschinissimo portone raccomandato a due o tre ordini di grate di ferro, e grate di ferro spesse e replicate stavano in luogo delle attuali linde e leggiere gelosie. Allora non eranvi candelabri e colonnette e intagli ed arabeschi, ma due sole fontane di marmo ad uso pubblico, e qualche lapide su cui, leggevasi il nome di Diego Enriquez de Guzman conte di Albadelista. Al portone, alle grate succedevano il cortile e le scale quali osservansi tutt’ora se non che meno linde e luride, come più triste e più barocco era l’insieme del palazzo, e parea che anco l’architettura contribuisse alla laidezza del locale, alla squallida miseria di un buon migliaretto di delinquenti ed inquisiti e condannati di tutte le forme, di tutti i modi, di tutti i delitti. Quel fabbricato era un osceno contrasto, tra la imponenza del nostro Toledo e la meschinità e luridezza della sua forma, una anomalia topografica per dir così, un errore di scopo.
Quella sera che Pietro e Luigi furono arrestati come il lettore conosce, dopo un lungo interrogatorio sostenuto in presenza del capitano d’arme in persona che per forza o per amore volea farne di quei due disgraziati i compagni di un fuor-bandito come diceva, verso la mezzanotte furono condotti alla Vicaria, e posti separatamente a carcere duro, volgarmente detto fra noi camera serrata.
Queste prigioni, o a meglio dire questa specie di sepolture, erano di forma bislunga, ed alte pressoché la statura regolare di un uomo. Aveano un piccolissimo pertugio che malamente chiamavasi finestrino a discapito della nostra filologia e della nostra architettura, e vi si entrava da una stretta e bassissima porticina, raccomandata a due o tre buonissimi chiavistelli e catenacci. Una luridissima stuoia per terra che rigurgitava acqua, inzuppata com’era da una soperchiante umidità, facea le funzioni di letto, ed un accurato lavorio di ragno suppliva alla coltrice. Altri mobili non ve n’erano, che l’angustezza del locale nol permetteva mica.
Il lettore visiterà con noi uno a uno i nostri due sventurati amici.
Luigi, anco nel suo dolore fu colpito a tal vista, e facendosi puntello colla mano sinistra alzossi dalla sua positura e lesse.
“Infelice colui che in questa terra non seppe ispirare che odio, ma infelicissimo quegli che abbisogna della pietà altrui – settembre 179..” e al fianco: “I costumi non si migliorano con una legge penale, e chi tutto tende a riformare, nulla riforma – 18...” Queste poche righe erano dell’istessa mano e scritte a lapis e ricalcate. Più sotto, poi vidde incisi i seguenti versi, ed erano incisi e non altrimenti, e non col bulino o qualche altro strumento dell’arte, ma con un semplicissimo chiodo.
E tanto valse il tremito
Di un scellerato male
M’eran sì diri i palpiti,
Ch’esterrefatta, e frale
L’alta possente e provvida,
Natura ammutolì.
D’atra bufera al fremito
Per se tremaro i figli, 
A’ padri ansanti esanimi
Mancarono gli ausigli,
Fu visto un tetto accogliere
Chi visse, e chi morì.

La poesia era continuata, ma vedeasi cancellata e rotta dalla umidità, e del suo seguito, non leggevansi che altri due versi:
D'accatastate vittime
Morte trionfa, e sta.
E sotto 18... Era forse la cifra del millesimo, ma non poteasi leggere il rimanente mancamento non procacciato dalla mano del tempo, o dalle gocciolature dell’acqua, ma dal pentimento forse o dal proposito dell’autore.
Il lettore che ci ha seguito fin qui nel nostro fastidioso cammino, che noi a malincuore abbiamo segnato, dolorando i casi e le vicissitudini di tanti esseri infelici, avviliti, dimenticati ed insultati, sentirà forse ribrezzo dell’abbrutimento, al quale si riducono questa classe d’uomini che il delitto e l’educazione ha tratti in quel cerchio vizioso. Se il suo cuore non si sente forte abbastanza da accompagnarci sino alla fine salti se il vuole a pie pari queste poche pagine; che non per questo la nostra storia sarà monca o divisa.
Noi epperò lo ripetiamo ancora una volta il nostro scopo è quello di svertare dall’occulto, vizî e virtù, magnanimità e delitti, onde per vie indirette si arrivi ad immegliare almeno sin dove si può la classe di tutti quegli infelici, che dondunque partano, sono sempre gli stessi, persuasi che a malgrado tutti quanti gli sforzi della filantropia e delle speculazioni umanitarie ce ne saranno sempre: il solo numero potrebbe esser diminuito, e questo sarebbe assai speranza lusinghiera per chi sparge pel bene pubblico sudori e voti. 


Benedetto Naselli: I Misteri di Palermo
Nella versione originale pubblicata presso Francesco Abate nel 1852
Prezzo di copertina € 21,00
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Nella foto: La Vicaria del pittore Umberto Coda

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