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venerdì 3 maggio 2019

Benedetto Naselli: il bandito Pasquale Bruno. Tratto da: I misteri di Palermo

Il solo lettore non la conosce per esteso sin’ora, ma da’ brani forse nel presente volume dettati, avrà potuto farsene una idea, e quale noi non la sappiamo. Perché non farnetichi però o vaneggi ne’ possibili a concretare un raziocinio sulla persona di Pasquale gliene daremo or ora i connotati.
Nato da onesti e agiati genitori in Corleone a trenta miglia lontano dalla capitale, il suo animo era cresciuto libero in mezzo alla campagna, educando il corpo a tutti quegli esercizi che lo rendono robusto ed atletico. Giunto all’età della ragione, divenne il giovine il più forte, il più generoso e il più sensibile nello stesso tempo della contrada. A Pasquale non potea dirsi il voglio, perché era fiato perduto, colle buone invece e colla persuasiva denudavasi sin’anco se occorreva. Appena maneggiato il fucile parve il più valente tra’ cacciatori, e non avea uguali o compagni a snidare una lepre, a scovacciare un coniglio, a perseguir selvaggiume. Questa passione predominavalo grandemente, ed aveasi fatto un nome gigante pel contado. Un giorno cacceggiando si era impostato in una tenuta guardando un cignale. Da lì a non molto sopravvenne un’autorità del paese, accompagnato d’adulatori e cortigiani e pretendeva ceduto il posto: Pasquale si negò, quegli insistè, qualcuno si fece lecito alzargli sopra le mani. Rabbioso dello sfregio e della vergogna ammaniva il fucile; ma fu trattenuto afferrato e tradotto in carcere. Soffrì lunga prigionia, e quando fu libero smaniava di vendetta. L’autorità intanto lo vegliava e lo pedinava, e ad ogni piè sospinto, buscavasi il carcere e la persecuzione. Alla fine Pasquale non ne volle dippiù, e giurando eterno odio ai soprusi dei prepotenti cominciò collo scannare il suo persecutore, e fuggendo darsi alla vita nomade e raminga.
Vivente il padre non abbandonò le contrade della terra natale, ed ebbe sempre fortuna a non cadere in prigione; morto quegli se ne allontanò, esulando altrove la vita tra gli stenti della fame e i sussulti della persecuzione, che dopo il fallo erasi ringagliardita.
Cominciò quindi a darsi al furto ed al saccheggio, ma non rubava già o saccheggiava negli averi e nelle sostanze chi n’era scarso, o limitato, sivvero i facoltosissimi, i doviziosi, i nobili infine, e dove trovava urto o reazione scannava a dirittura senza misericordia; e col danaro poi dal furto ritratto e qualche volta di sangue bagnato, sollevava il miserabile, leniva la sciagura, confortava l’afflizione, ed il suo nome divenia giorno per giorno gigante e formidabile, come quello di Golia. I suoi persecutori lo sentivano con ispavento, e i beneficati con amore e con gratitudine. Alla perfine dopo varî tentativi e rimostranze una taglia considerevolissima fu imposta alla sua testa. Ma egli non la temeva già, chè non avea nè amici nè compagni a tradirlo, ed i suoi fidi erano tre soli alani, che dividevano sempre con lui i pericoli delle zuffe e i favori della vittoria.
Una giornata Pasquale fu inteso che un capo bargello per oscene voglie di amorosa passione perseguiva furente un povero ed onesto villanello. Egli lo pedinò, l’appostò, e quando gli fu sotto, tolse con una fucilata l’innamorato e il persecutore.
Altra volta un pubblico funzionario sordo ai moti della giustizia, intento solo allo scroscio dell’oro, tradendo infamemente i suoi doveri, spogliò d’una fortuna un miserabile orfanello, ingrossando gli scrigni del tutore: ebbe guiderdone competente nel pugnale di Pasquale. Questi fatti così pubblici ed eclatanti lo aveano reso sì popolare, che niuno ardiva farsene delatore; ed egli acquistando fama sulla moltitudine, ne profittava dei favori, talchè quante spedizioni tentò a suo danno la giustizia tornaron privi d’effetto, e Pasquale ogni giorno acquistava nome e prestigio, e mettea mano su tutto e su tutti, minacciando e castigando quanto per loro male opere capitavan sotto i suoi sguardi.

Pasquale avea già fatta la sua professione di fede. Egli nato libero in mezzo alle campagne, educato alla buona fede ed alla campestre morale, forte nell’animo e di maschi pensamenti, ch’erasi visto alla perfine dalla prepotenza perseguitato e ridotto com’era a camparsi la vita per boschi e per dirupi, disonorato in faccia al mondo, con un nome pieno d’onta e di vergogna, avea fatto proposito, non retrocedere d’un passo sulla sua via, e fidar tutto all’evento. Egli erasi ben persuaso che un giorno l’altro dovea finirla in un attacco o sur un patibolo, e cercava contrapporre alla infamia di un nome che la società suo malgrado aveagli buttato in faccia, la più costante, la più ferma, la più permanente persecuzione contro il prepotente, sollevando il povero coll’oro del ricco, tranquillando la vergine colla morte del seduttore, sollevando l’onestà col prostrare ed abbattere il vizio e le turpitudini.
Ed in questo pensamento occupavasi tutti i giorni, cercando sin’anco da per se solo sventure a lenire, desolati a confortare, soprusi a combattere, senza che per niente in questo entrasse la propria tranquillità o il bene proprio, ma per elezione, per proponimento.
La generosità adunque e le ricchezze del principe di B... eran di pascolo alle sue mire, né volle ad ogni costo abbandonare la sua vita, attaccata com’era a tanti proponimenti, con una fuga oltremare, o limosinando una grazia, che ove fosse stata generosa, offrivagli sempre una catena al piede.
Egli adunque amava il principe come a padre puossi amare; e questi rispondeva con affetto fraterno…


Benedetto Naselli: I misteri di Palermo.
Nella versione originale pubblicata presso Francesco Abate nel 1852
Prezzo di copertina € 21,00
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
Disponibile su Amazon Prime
Disponibile presso Librerie Feltrinelli. 
Nella foto: Disegno di Niccolò Pizzorno, che così lo immagina nella copertina di "Pasquale Bruno" di Alexandre Dumas pubblicato nella stessa collana.

Benedetto Naselli: La Vicaria. Tratto da: I Misteri di Palermo

Di fronte alla piazza marina a Palermo, sorge un bellissimo fabbricato di stile toscano a tre piani, vestito di stucco lucido, guardate le finestre da verdi gelosie e adorno il vestibolo da uno spaziosissimo portico ricco di colonne, d’intagli, arabeschi, con lo stemma reale nel centro, e chiuso da una ricchissima inferriata fusa a fantasia. Ai lati sorgono due smisurati candelabri dello stesso metallo, lavorìo dei nostri artigiani e delle fonderie nostre.
Sul frontone del portico a lettere di rame dorato leggesi  “Reali Finanze”.
Questo palazzo fu eretto nel 1578, e poi fu destinato a servire per le pubbliche prigioni, e prendea nome di Vicaria (14). La sua forma era quale osservasi tuttora, ma la sua figura era ben diversa. Allora non sorgeano colonne scannellate a sorreggere l’ampiezza del portico ma invece aprivasi un meschinissimo portone raccomandato a due o tre ordini di grate di ferro, e grate di ferro spesse e replicate stavano in luogo delle attuali linde e leggiere gelosie. Allora non eranvi candelabri e colonnette e intagli ed arabeschi, ma due sole fontane di marmo ad uso pubblico, e qualche lapide su cui, leggevasi il nome di Diego Enriquez de Guzman conte di Albadelista. Al portone, alle grate succedevano il cortile e le scale quali osservansi tutt’ora se non che meno linde e luride, come più triste e più barocco era l’insieme del palazzo, e parea che anco l’architettura contribuisse alla laidezza del locale, alla squallida miseria di un buon migliaretto di delinquenti ed inquisiti e condannati di tutte le forme, di tutti i modi, di tutti i delitti. Quel fabbricato era un osceno contrasto, tra la imponenza del nostro Toledo e la meschinità e luridezza della sua forma, una anomalia topografica per dir così, un errore di scopo.
Quella sera che Pietro e Luigi furono arrestati come il lettore conosce, dopo un lungo interrogatorio sostenuto in presenza del capitano d’arme in persona che per forza o per amore volea farne di quei due disgraziati i compagni di un fuor-bandito come diceva, verso la mezzanotte furono condotti alla Vicaria, e posti separatamente a carcere duro, volgarmente detto fra noi camera serrata.
Queste prigioni, o a meglio dire questa specie di sepolture, erano di forma bislunga, ed alte pressoché la statura regolare di un uomo. Aveano un piccolissimo pertugio che malamente chiamavasi finestrino a discapito della nostra filologia e della nostra architettura, e vi si entrava da una stretta e bassissima porticina, raccomandata a due o tre buonissimi chiavistelli e catenacci. Una luridissima stuoia per terra che rigurgitava acqua, inzuppata com’era da una soperchiante umidità, facea le funzioni di letto, ed un accurato lavorio di ragno suppliva alla coltrice. Altri mobili non ve n’erano, che l’angustezza del locale nol permetteva mica.
Il lettore visiterà con noi uno a uno i nostri due sventurati amici.
Luigi, anco nel suo dolore fu colpito a tal vista, e facendosi puntello colla mano sinistra alzossi dalla sua positura e lesse.
“Infelice colui che in questa terra non seppe ispirare che odio, ma infelicissimo quegli che abbisogna della pietà altrui – settembre 179..” e al fianco: “I costumi non si migliorano con una legge penale, e chi tutto tende a riformare, nulla riforma – 18...” Queste poche righe erano dell’istessa mano e scritte a lapis e ricalcate. Più sotto, poi vidde incisi i seguenti versi, ed erano incisi e non altrimenti, e non col bulino o qualche altro strumento dell’arte, ma con un semplicissimo chiodo.
E tanto valse il tremito
Di un scellerato male
M’eran sì diri i palpiti,
Ch’esterrefatta, e frale
L’alta possente e provvida,
Natura ammutolì.
D’atra bufera al fremito
Per se tremaro i figli, 
A’ padri ansanti esanimi
Mancarono gli ausigli,
Fu visto un tetto accogliere
Chi visse, e chi morì.

La poesia era continuata, ma vedeasi cancellata e rotta dalla umidità, e del suo seguito, non leggevansi che altri due versi:
D'accatastate vittime
Morte trionfa, e sta.
E sotto 18... Era forse la cifra del millesimo, ma non poteasi leggere il rimanente mancamento non procacciato dalla mano del tempo, o dalle gocciolature dell’acqua, ma dal pentimento forse o dal proposito dell’autore.
Il lettore che ci ha seguito fin qui nel nostro fastidioso cammino, che noi a malincuore abbiamo segnato, dolorando i casi e le vicissitudini di tanti esseri infelici, avviliti, dimenticati ed insultati, sentirà forse ribrezzo dell’abbrutimento, al quale si riducono questa classe d’uomini che il delitto e l’educazione ha tratti in quel cerchio vizioso. Se il suo cuore non si sente forte abbastanza da accompagnarci sino alla fine salti se il vuole a pie pari queste poche pagine; che non per questo la nostra storia sarà monca o divisa.
Noi epperò lo ripetiamo ancora una volta il nostro scopo è quello di svertare dall’occulto, vizî e virtù, magnanimità e delitti, onde per vie indirette si arrivi ad immegliare almeno sin dove si può la classe di tutti quegli infelici, che dondunque partano, sono sempre gli stessi, persuasi che a malgrado tutti quanti gli sforzi della filantropia e delle speculazioni umanitarie ce ne saranno sempre: il solo numero potrebbe esser diminuito, e questo sarebbe assai speranza lusinghiera per chi sparge pel bene pubblico sudori e voti. 


Benedetto Naselli: I Misteri di Palermo
Nella versione originale pubblicata presso Francesco Abate nel 1852
Prezzo di copertina € 21,00
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Nella foto: La Vicaria del pittore Umberto Coda

Benedetto Naselli: I Misteri di Palermo

Come i romanzi dei "Misteri" scritti da vari autori per ogni città, i protagonisti vivono tutti nello stesso luogo: "scendendo sulla diritta del piano di S. Teresa, succede un magnatizio palazzo, e dalle spaziose sale, che fan bella mostra del gusto e della squisitezza dei nostri tempi andati… soprastanno al frontone d'una delle molte entrate le armi gentilizie della illustre famiglia a cui appartiene. 
Soprastanno al frontone d’una delle molte entrate, le armi gentilizie della illustre famiglia a cui pertiene. Al cominciare del presente secolo, di costa a tal palazzo, e propriamente in una viuzza che lo fiancheggiava, esistiva una casa di modesta apparenza a due piani ove si alloggiavano due famiglie cadute nell’infortunio e nelle meschinità, al pianterreno un giovane scultore colla madre, ed in soffitta due incogniti, due anonimi come direbbesi, due esseri misteriosi, due di quegli uomini infine, che escono la mattina per ritirarsi la sera, che non sono mai dimandati, che non si vedono, che sono la smania delle male lingue del vicinato, stizzantesi in tali occasioni a non poter mormorare ad occhi veggenti sul loro conto…
Il pianterreno del palazzo, abitato dallo scultore, componevasi di una sola stanza. A destra dello entrare, un  focolare in pietra, e per una scaletta di legno si saliva ad un mezzanino che ricevea la luce dalla stanza istessa. Ivi erano riposti due meschinissimi letti con pagliericci, l’uno per Genoveffa madre dello scultore, l’altro per lo stesso... 
Nella casa, al di cui pianterreno abitava il nostro Luigi, al primo piano lavorava un giovine pittore, ed al secondo la vedova con la famiglia di un impiegato morto da parecchi anni. In soffitta, come il sapete, nascondevansi Odoardo e Maria unitamente al vecchio Tom.
Il pittore chiamavasi Guglielmo. Era un uomo a trentacinque in su i trentasei anni. Magro e snello, con una bella capigliatura castagna e due occhi nerissimi che luccicavano come stelle. La di lui famigliuola componevasi di una buona moglie, vero tipo delle oneste madri di famiglia, e tre bambinelli, dei quali il più grande contava allora sei anni, e l’ultimo poppava. La casa non avea che due sole stanzette e una cucina. Il buon Guglielmo era figlio dell'arte…"
Accanto ai protagonisti ruotano altri personaggi non meno importanti, come il principe di Butera "il Principe di B... di cui abbiamo sin dal bel principio descritte la casa e la corte, era ben differente fra quanti avea compagni di stato e di fortuna. Egli era buono... ma il di lui cuore potea menomarne gli abusi e lenirne le pene, abbatterli no davvero, che niuno pensò mai scapitare in dritto o in fatto dalle avite pretese delle antiche usanze…" e il bandito Pasquale Bruno, già noto nell'omonimo romanzo di Alexandre Dumas (padre) che nel corso del romanzo assume sempre più la parte di co-protagonista. "Da bel principio credettero esser soli; ma poi fecersi accorti, che al fianco della porticina dalla quale era uscito chi li avea condotti, sedevasi un uomo, una specie di villanzone, vestito di velluto con una berretta nera posata sulla gamba sinistra. E Pietro seguitava a contemplare quel volto plebeo che la necessità colorisce e corruga, e quelle mani callose e tarchiate, che muove il bisogno di un pane e la conservazione e difesa propria; quelle mani che mosse appena procacciano un tozzo di pane al ventre o una catena ai piedi. Il villanzone accovacciato com’era, rimpicciolivasi, e parea cosa morta, nè curavasi d’altro che de’ suoi pensieri che doveano starsi ben a martello per non muoverlo affatto dalla sua positura."
Il tutto nella cornice di una Palermo ottocentesca descritta nei minimi particolari…


Benedetto Naselli: I misteri di Palermo
Nella versione originale pubblicata presso Francesco Abate nel 1852
Copertina di Niccolò Pizzorno
Prezzo di copertina € 21,00
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
Disponibile su Amazon Prime
Disponibile presso Librerie Feltrinelli

Benedetto Naselli: I misteri di Palermo

Nel 1842 Eugène Sue pubblica I misteri di Parigi, inaugurando ben presto un fortunato genere letterario che varcherà  i confini francesi. Il romanzo tradotto in italiano nel 1848 influenza i nostri scrittori fino a creare una vera e propria moda che dilaga per tutta la penisola italica con la pubblicazione di diverse opere di "Misteri", come quelli di Roma, Torino, Firenze, Livorno, Genova solo per citare i più noti. 
Ma oltre a quelli più famosi di Napoli di Francesco Mastriani, un posto a parte lo occupano I misteri di Palermo di Benedetto Naselli, oggi riproposti nell'unica e rarissima versione originale. 
L'opera, pubblicata nel 1852 è la realistica rappresentazione di una Palermo degli inizi ottocento ed è piuttosto sensibile al ritardo culturale e al degrado materiale del popolo, avversato dai capricci dei potenti e dalle loro corruzioni, da una privatistica e influenzabile amministrazione della giustizia, da una miseria che è solo sofferenza e disperazione senza riscatto. Naselli ci descrive una società  governata dal male utilitaristico come volto necessario del potere, dove il carcere con le sue torture è la normale conduzione dell'infelice vita di genti affamate di pane e giustizia. 
Il realismo di questo romanzo è dato anche dalla sua perfetta ambientazione nella Palermo ottocentesca, dove tutti i personaggi si muovono con estrema naturalezza e si distingue soprattutto per il primario tentativo d'indagine sociale con la descrizione di una vita giornaliera, che seppur usando il registro narrativo di un tardo romanticismo per le sue tematiche in costante conflittualità  fra i grandi temi del bene e del male, della virtù e del vizio, lo colloca prepotentemente fra i grandi romanzi popolari dell'ottocento. Un autorevole dramma dell'ingiustizia, del quale sembra vittima in prima persona questo sconosciuto scrittore palermitano, avvolto nel mistero di una feroce dimenticanza collettiva.

Benedetto Naselli: I misteri di Palermo 
Nella versione originale pubblicata presso Francesco Abate nel 1852. Copertina di Niccolò Pizzorno
Prezzo di copertina € 21,00 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
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