Verso le ore quattordici
d’Italia, Luigi seguito da numeroso stuolo di guardie e di birri fu condotto in
uno stanzone, che allora giacea a primo piano sulla dritta di chi entrava
nell’antico carcere. La volta era nerastra come le murate rapprese da fuliggini
che coprivano alcuni antichi affreschi di storia sacra. In fondo un gran
tavoliere di legno dipinto a olio guarnito di un drappo verde, e suvvi un
crocifisso, una calamariera di argento e diverse carte. Ivi sedute erano tre
persone.
Il primo che stava nel
mezzo, un uomo sui sessant’anni, vestito di toga, con una faccia rosso sangue,
ed un paio d’occhi così furbi ed incisivi da far venire la tremarella al più
astuto scorridore del mondo, ed era il regio procurator fiscale; sulla sua
dritta stava il contestabile così detto, ed alla sinistra un cerusico entrambi
della sua corte. Ai fianchi di costoro eravi un altro tavolo senza apparecchio
su cui giacevano diversi ordegni inservienti alla tortura, e scardellini in
legno e forbici e tanaglie, e ferri piatti manicati in legno, e corde e uncini.
Fu denudato fino alla
cintola ed esaminato costola per costola, braccio per braccio, e quasi arteria
per arteria, né ciò vuolsi credere per umanitaria filantropia, ma sivvero per
evitare delle preparazioni che in quei tempi efferati e balordi credeansi
possibili ad eludere lo strazio del tormento, e quando l’esame fu compiuto nel
senso della legge, il cerusico accennò colla testa al procurator fiscale che
tutto era in regola e che dalla parte sua non aveva ostacoli, a frapporre
l’esecuzione.
Dopo tale assicurazione un
altr’uomo, che Luigi ancora non avea visto, si avanzò, un uomo terribilmente
truce, di una fisionomia però stupida e ributtante allo stesso tempo, vestito
colla sua uniforme, ed era il boja. Come gli si appressò ghermendolo fra le
braccia, il povero Luigi cadde in un tremendo spasimo nervoso vedendosi ridotto
a tal punto di degradazione sociale, che facealo dapresso a quell’uomo così
osceno e così schifoso; ma soffrì anco in pace sempre fermo nel suo proposito
di vendetta, quest’altra umiliazione.
Allora le sue braccia
rivolte all’indietro vennero strettamente con tre giri di corda legate ai polsi
e fu adagiato in un punto ove pendeva dal tetto una ben lunga e grossa fune a
due capi raccomandata al di sopra ad una carrucola di legno.
All’estremità dell’un capo
era un uncino di ferro ricurvo quasi a mo’ di anello, che dalla sua punta fu
introdotto fra mezzo i legami della corda che guardavangli i polsi, e vi restò
senz’altro.
Allora il procurator
fiscale rivolto nuova volta a Luigi, dimandò:
- Vuoi dunque dichiarare
il perché assassinaste il signor Filippo?
- Io non so nulla.
La sua negativa ancora non
era ben pronunziata dalla sua bocca, e vide mancarsi il terreno di sotto ai
piedi, chè con un cenno d’occhio del procuratore fiscale, il boja già avea
tirata la corda, e sospingealo gradatamente in aria.
Qui i tormenti e gli
spasimi cominciarono atrocissimi per il povero Luigi. La pelle che covriva il
di lui petto e le costole parea rompersi ai grandi conati che recavangli le
stirature delle braccia. Le ossa scricchiolavano gradatamente, e sentiasi uno
scroscio stridente, come quello di un mobile nei giorni estivi, quando le
tavole e le contesture si fiaccano per i soverchi calori. La sua faccia
diventava livida come pure le mani, ove abbondava il sangue arrestato nella sua
circolazione. Il suo corpo stava quasi boccone, se non che ribaltava agli
scherzi di un infame saliscendere che procacciavasi accuratamente alla corda
che il sospingea. Fu posto quindi per la prima volta a terra, ed il
contestabile al quale ora la legge riserbava l’ufficio delle interrogazioni
dimandò:
- Vuoi dire la verità?
E Luigi sotto lo strazio
di quel tormento facevasi ancora forte, chè non era arrivato al punto, e
rispose:
- Io non so nulla.
Né per questo si
persuasero i custodi della esecuzione che anzi ordinarono il rinnovarsi lo
esperimento con aggiungervi talune battiture di verghe sul petto, e l’ordine
saria stato replicato per una buona mezz’oretta, tempo dalle leggi volutone, se Luigi spasimando sotto lo strazio di dolori acutissimi ed
incomprensibili da posporsi sempre alla morte, non avesse gridato ma
agonizzante, esserne lui il colpevole. Fu quindi calato nuovamente per terra, e
sciolto; dichiarò la sua reità accompagnandola con la sua storia, che al
sentirla, anco quei cuori duri ad ogni sentimento gentile, n’ebbero pietà…
Le autorità quindi
compilarono il loro processo verbale dell’eseguito sperimento colle formole
prescritte, ed il reo fu nuova volta chiuso al carcere duro, per quindi
ratificare alla presenza di tutta quanta la regia Corte la sua dichiarazione,
alla quale era riserbato il giudizio e la condanna.
E Luigi rifinito di forze
e martoriato da acutissimi dolori, straziato nella mente e nel corpo, fu
lasciato peggio che un animale, sul giaciglio che offriagli il nudo terreno
privo d’ogni soccorso, con la funesta speranza d’una rovina sicura e imminente.
Vedi quanto i tempi che oggi si decantano morali e migliori che i nostri non
sono, erano fitti nella barbarie e negli stravizi d’uno smodato uso di legge,
che alla fin fine non arrivava mai allo scopo, sendo che dalle atrocità tutti
rifuggivano o non poteano sopportare, prescegliendo sempre la colpa e quindi la
morte, per togliersi col soffrire di un attimo, la continuità di prolungati
dolori.
Benedetto Naselli: I misteri di Palermo.
Nella versione originale pubblicata per la prima ed unica volta nel 1852.
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