Quando
una pestifera lue nel giugno 1623, violenta, subitanea
contaminava la bella Palermo, che apparve quasi incredibile come vi si
andasse rapidamente moltiplicando, e tanto mutamento facea, onde gli umani aiuti
prodigati con sollecitudine e magnanimità, mancaron d’effetto. Ma un’angioletta
della prosapia dei Marsi e per essi di Carlo Magno, congiunta per consanguineità
a Costanza figlia di Ruggiero, nel parentado affine all’imperatrice Costanza
ed al primo Guglielmo; Rosalia riportava all’eterno colle sue lacrime i pianti
di quaggiù, tenera colomba che sospirando il suo compagno fuggìa dal fremito d’ogni
umano consorzio ricercandolo nella solitudine. Essa dietro una vita di stenti
volò agli amplessi beati, all’ebbrezza interminabile lasciando la fredda salma
su di un’erta inacessa. Ecco l’erta sacra, ecco la statua di sua onoranza. Il
suo piano ci valse nei dì del dolore il perdono dell’eterno; si terser le
lacrime, la chiesa fu in ricca veste, la salma di lei rinvenuta sul ciglione
rimoto, fu iride di speranze e consolazioni avvenire.
Oh!
le lacrime tergete o dolenti nella sventura! fu sgombra la nube malaugurata!
Come il sole che lanciandosi dal balzo Eoo riflette sulle onde smeraldine i
suoi raggi dorati, ed il creato risveglia, vivificando del suo lume l’addormita
natura, non altrimenti si operò, tostochè per volere del cielo furono rinvenute
le sospirate ossa benedette.
Pei
borghi, per le campagne, pei trivi, e per le strettissime vie della città di
Palermo, si conducevano quelle reliquie preziose; e qual nelle uste lande di
Egitto spargeva tra il popolo immenso, immense le grazie l’arca del patto, così
dal tepor santo di quelle ossa era scacciata la peste ingagliardita, dal tepor
di quelle ossa si ebbe la salvezza fra tutti, dal tepor di quelle ossa le
benedizioni sgorgarono, ed il sorriso.
Nell’orridezza
dei ciglion di Quisquina, nell’alpestre montagna dell’Ercta che secoli scorsi
risuonava per mille trambusti d’armi e d’armati, di sterminate falangi puniche;
ove l’intera formidabil oste di Amilcare inalberò il punico leone per avverso
le aquile latine; ove non sorgea lappola o cardone, i figli di Panormo l’obbietto
trovavano e trovano mai sempre di loro delizie. Quei greppi sol dal serpe
lambiti, quei gioghi visti nel fuggevol tocco dello sparviere, furon calcati
da gente devota nelle lacrime di tenerezza.
E non
delle grame femine e paurosi vegliardi fu sola la credenza, la venerazione ed
il culto, ma di cuori i più rotti alle sfrenatezze, delle menti trascendentali
che riverenti prostraronsi ad omaggio della vergine, e che la gente minuta non
solo, ma ben anco duchi e baroni disarmato il fianco e col cereo votivo,
procedevano a ringhiere innanzi la sacra urna che contenea le reliquie della
benedetta.
A
meglio perpetuarne la gioia quindi, della ricevuta beneficenza si vollero dai
palermitani istituite annue solennità; si volle, e ogni anno alla cara memoria
del fatto e ad eternare gli encomi, il giubilo e laudazioni, cinque dì
si consacrano alla Verginella romita come in tenero tributo di amore.
Un popolo immenso
affollato stretto sino a perderne il respiro, gremiva tutto il Foro Borbonico;
un’onda di popolo sbucava incalzando dalle porte cittadine, e parea che la
piena rovinosa volesse soverchiare il terreno; ma più che si avanzava, più correva
al suo equilibrio, come l’onda marina incalzata dall’onda, si sconvolge per
poco e si appiana. Da ogni altura, da ogni terrazzo era un brulicar di teste,
che miste tra il buio della notte, parean fantasmi vagolanti nell’aere. Le due
ore della notte si udivano battere più d’una volta successivamente dagli spessi
oriuoli della città, ed era il punto che
Sua Maestà Ferdinando I, di augusta ricordanza, giungeva col treno al
terrazzino di contro alla gran macchina dei fuochi. Ciò era in quei dì beati
quando la Corte allietava Palermo colla sua presenza. Colà era tutt’altra
scena e tutt’altra gaiezza. Una tenda vaga di bei colori, rischiarata da mille
profumate facelle, ove un coro di scelte dame, cavalieri e baroni, ricambiavano
i loro complimenti: ah! quella era tutt’altra scena! I brillanti dei loro
monili che gareggiavano col foco delle torce, i colori svariati dei loro veli,
dei loro ricami e dei loro guardinfante, sembravan quelle dell’arcobaleno;
tutto era brio e magnificenza, tutto era vago e leggiero come i loro pensieri,
tutto era caro come la loro leggiadrìa, tutto cortese, tutto alla moda, perché
la moda predominava nei loro vestiti, nelle loro maniere, nei bei motti, nelle
loro arrendevolezze. Un folgore che si lanciò
per l’aere, poi uno ed un altro, annunziavano lo sparo. E
allora bombe che si estollevano in alto come palle di fuoco, e ricadevano
scoppiando a forme
di pioggia d’oro e d’argento.
Il
rimbombo, lo scoppio, le fiamme, il crepitare, le acclamazioni, eccedeano
nella fine ogni illusione – motus in fine
velocior – un minuto e una bomba, poi un’altra, e tutto fu silenzio, se non
che succedevano ad atomi le voci dei rivenduglioli, le imbandigioni di sementi
cotte, di rinfreschi, e tutte sorta di golosità.
La folla cominciò nuovamente a rimestarsi: uno incalzava l’altro che
incalzato camminava più per la corrente impetuosa che pel proprio divisamento,
andava sbucando per diverse direzioni, chi a furia di gomiti spingeasi
per la Villa così detta per antonomasia, cioè Flora o Villa Giulia, talmente
appellata da Giulia Guevara moglie del vicerè Colonna, che la ridusse.
Questa Villa era tutta
ingemmata di luce nei suoi alberi, nei suoi viali, nelle sue belle fontane,
gremita di piante, di cupolette, vaga e ridente di poggi e di terrazze, cara e
melanconica fra i cipressi e le tombe d’illustri trapassati.
Scelte
bande musicali spartite in diversi punti aggiungean prestigio a quel luogo
divenuto soggiorno di Silfidi e di Driadi oretee, poiché tanto il
romanticismo che la favola gareggiano a dare un nome alle vaghe pulzelle, che
profumata la chioma e vestite a gala, ivan lievi rabbellendo quella scena di
soavità, riducendola scuola di lusso, di amore e galanteria. E misti secoloro
zerbinotti leggieri che lor facean corona, cittadini e regnicoli coi loro visi
stralunati camminavano
coi loro abiti da festa, come chi porta
da dosso un peso; e foresi dalle ville prossimane che a torma e colle mani tenentisi l’un l’altro andavano estatici girando come per meccanismo. E tra la folla in vaga e facil maniera biancheggiavano certi cori di garzoni e donzelle coi loro candidi scialli quest’ultime, ed in bianche giacchette i primieri, affettando un travestimento che a loro pensiere gli assicurava l’incognito, ma che più su loro attirava gli sguardi della moltitudine.
da dosso un peso; e foresi dalle ville prossimane che a torma e colle mani tenentisi l’un l’altro andavano estatici girando come per meccanismo. E tra la folla in vaga e facil maniera biancheggiavano certi cori di garzoni e donzelle coi loro candidi scialli quest’ultime, ed in bianche giacchette i primieri, affettando un travestimento che a loro pensiere gli assicurava l’incognito, ma che più su loro attirava gli sguardi della moltitudine.
Prezzo di copertina € 21,00
Benedetto Naselli: I misteri di Palermo. Romanzo storico siciliano.
Nella versione originale pubblicata nel 1852. Copertina di Niccolò Pizzorno.
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (sconto 20%)
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