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lunedì 9 luglio 2018

Benedetto Naselli: Il Festino. Tratto da: I misteri di Palermo. Romanzo storico siciliano


Quando una pestifera lue nel giugno 1623, violenta, subitanea contaminava la bella Palermo, che apparve quasi incredibile come vi si andasse rapidamente moltiplicando, e tanto mutamento facea, onde gli umani aiuti prodigati con sol­lecitudine e magnanimità, mancaron d’effetto. Ma un’angioletta della prosapia dei Marsi e per essi di Carlo Magno, congiunta per consan­guineità a Costanza figlia di Ruggiero, nel pa­rentado affine all’imperatrice Costanza ed al pri­mo Guglielmo; Rosalia riportava all’eterno colle sue lacrime i pianti di quaggiù, tenera colomba che sospirando il suo compagno fuggìa dal fre­mito d’ogni umano consorzio ricercandolo nella solitudine. Essa dietro una vita di stenti volò agli amplessi beati, all’ebbrezza interminabile lasciando la fredda salma su di un’erta inacessa. Ecco l’erta sacra, ecco la statua di sua onoranza. Il suo piano ci valse nei dì del dolore il perdono dell’eterno; si terser le lacrime, la chiesa fu in ricca veste, la salma di lei rinvenuta sul ciglione rimoto, fu iride di speranze e consolazioni avvenire. 
Oh! le lacrime tergete o dolenti nella sventura! fu sgombra la nube malaugurata! Come il sole che lanciandosi dal balzo Eoo riflette sulle onde smeraldine i suoi raggi dorati, ed il creato risveglia, vivificando del suo lume l’addormita natura, non altrimenti si operò, tostochè per volere del cielo furono rinvenute le sospirate ossa benedette. 
Pei borghi, per le campagne, pei trivi, e per le strettissime vie della città di Palermo, si conducevano quelle reliquie preziose; e qual nelle uste lande di Egitto spargeva tra il popolo immenso, immense le grazie l’arca del patto, così dal tepor santo di quelle ossa era scacciata la peste ingagliardita, dal tepor di quelle ossa si ebbe la salvezza fra tutti, dal tepor di quelle ossa le benedizioni sgorgarono, ed il sorriso.  
Nell’orridezza dei ciglion di Quisquina, nel­l’alpestre montagna dell’Ercta che secoli scorsi risuonava per mille trambusti d’armi e d’armati, di sterminate falangi puniche; ove l’intera for­midabil oste di Amilcare inalberò il punico leone per avverso le aquile latine; ove non sorgea lappola o cardone, i figli di Panormo l’obbietto trovavano e trovano mai sempre di loro delizie. Quei greppi sol dal serpe lambiti, quei gio­ghi visti nel fuggevol tocco dello sparviere, fu­ron calcati da gente devota nelle lacrime di tenerezza.
E non delle grame femine e paurosi vegliardi fu sola la credenza, la venerazione ed il culto, ma di cuori i più rotti alle sfrenatezze, delle menti trascendentali che riverenti prostraronsi ad omaggio della vergine, e che la gente minuta non solo, ma ben anco duchi e baroni disarmato il fianco e col cereo votivo, procedeva­no a ringhiere innanzi la sacra urna che contenea le reliquie della benedetta.
A meglio perpetuarne la gioia quindi, della ricevuta beneficenza si vollero dai palermitani istituite annue solennità; si volle, e ogni anno alla cara memoria del fatto e ad eternare gli encomi, il giubilo e laudazioni, cinque dì si consacrano alla Verginella romita come in tenero tributo di amore. 
Fin da quell’anno poi, cioè dal 1626, come che avesser cambiato i costumi e le tendenze, a seconda delle diverse fisonomie del secolo pure fermo e duraturo è rimasto, e rimarrà pei tempi avvenire l’istesso culto e gli stessi trion­fi; poiché ogni secolo ha la propria fisonomia, ogni tempo ha le sue mode, i suoi costumi, le sue scene di vita; ogni epoca è sempre avida di novità buone o cattive poco monta, purché s’innovi, non si cura del vantaggio o del detri­mento; nelle società vi è sempre vaghezza di riforme, di mode, di tramutamenti negli abili, negli adorni, nei passatempi; ma le religioni che vi regnano sono indelebili, il culto che si pro­fessa è sempre intaminato, in ciò sol non s’in­nova, si è ligi ben anco nei pregiudizi, si è uni­formi anche nel modo.
Era la gran macchina del trionfo un magni­fico carro, che già dì faceasi altissimo tanto da sprofondare il terreno, far guasti e rovine; ma di anno in anno si è venuto diminuendone la mole, accrescendone però la gaiezza dei drappi che l’adornano, meliorandone il disegno, l’idea e la maniera. Esso carro giunto a porta Nuova pose termine per quel alla sua missione. La folla dietro a lui dileguavasi equilibrandosi per la città insino a sera, che alle ore 24 comin­ciava a illuminarsi la via Toledo ed il Foro Bor­bonico, ove sorgea la gran macchina dei fuochi artificiali, che rappresentava un tempio sullo stile composto, negl’intramezzi del quale erano dipinti temi esclusivamente propri di glorie patriottiche, pel santo scopo, onde il popolo per vie indirette conosca la sua prisca grandezza, e perché una volta privo di avere attinto al sacro fonte della storia patria, o a delle luminose tradizioni, possa conoscere qual furono gli avi suoi, per mezzo dei simulacri e dei dipinti.
Un popolo immenso affollato stretto sino a perderne il respiro, gremiva tutto il Foro Borbo­nico; un’onda di popolo sbucava incalzando dalle porte cittadine, e parea che la piena rovinosa volesse soverchiare il terreno; ma più che si avanzava, più correva al suo equilibrio, come l’onda marina incalzata dall’onda, si sconvolge per poco e si appiana. Da ogni altura, da ogni terrazzo era un brulicar di teste, che miste tra il buio della notte, parean fantasmi vagolanti nell’aere. Le due ore della notte si udivano battere più d’una volta successivamente dagli spessi oriuoli della città, ed era il punto che Sua Maestà Ferdinando I, di augusta ricordanza, giun­geva col treno al terrazzino di contro alla gran macchina dei fuochi. Ciò era in quei dì beati quando la Corte allietava Palermo colla sua pre­senza. Colà era tutt’altra scena e tutt’altra ga­iezza. Una tenda vaga di bei colori, rischiarata da mille profumate facelle, ove un coro di scelte dame, cavalieri e baroni, ricambiavano i loro complimenti: ah! quella era tutt’altra scena! I brillanti dei loro monili che gareggiavano col foco delle torce, i colori svariati dei loro veli, dei loro ricami e dei loro guardinfante, sem­bravan quelle dell’arcobaleno; tutto era brio e magnificenza, tutto era vago e leggiero come i loro pensieri, tutto era caro come la loro leg­giadrìa, tutto cortese, tutto alla moda, perché la moda predominava nei loro vestiti, nelle loro maniere, nei bei motti, nelle loro arrendevo­lezze. Un folgore che si lanciò per l’aere, poi uno ed un altro, annunziavano lo sparo. E allora bombe che si estollevano in alto co­me palle di fuoco, e ricadevano scoppiando a forme di pioggia d’oro e d’argento. 
Il rimbombo, lo scoppio, le fiamme, il cre­pitare, le acclamazioni, eccedeano nella fine ogni illusione – motus in fine velocior – un minuto e una bomba, poi un’altra, e tutto fu silenzio, se non che succedevano ad atomi le voci dei rivenduglioli, le imbandigioni di sementi cotte, di rinfreschi, e tutte sorta di golosità.
La folla cominciò nuovamente a rimestarsi: uno incalzava l’altro che incalzato camminava più per la corrente impetuosa che pel proprio divisamento, andava sbucando per diverse direzioni, chi a furia di gomiti spingeasi per la Villa così detta per antonomasia, cioè Flora o Villa Giulia, talmente appellata da Giulia Guevara moglie del vicerè Colonna, che la ridusse.
Questa Villa era tutta ingemmata di luce nei suoi alberi, nei suoi viali, nelle sue belle fontane, gremita di piante, di cupolette, vaga e ridente di poggi e di terrazze, cara e melanconica fra i cipressi e le tombe d’illustri trapassati.
Scelte bande musicali spartite in diversi punti aggiungean prestigio a quel luogo divenuto soggiorno di Silfidi e di Driadi oretee, poiché tanto il romanticismo che la favola gareggiano a dare un nome alle vaghe pulzelle, che profumata la chioma e vestite a gala, ivan lievi rabbellendo quella scena di soavità, riducendola scuola di lusso, di amore e galanteria. E misti secoloro zerbinotti leggieri che lor facean corona, citta­dini e regnicoli coi loro visi stralunati camminavano coi loro abiti da festa, come chi porta
da dosso un peso; e foresi dalle ville prossimane che a torma e colle mani tenentisi l’un l’altro andavano estatici girando come per meccanismo. E tra la folla in vaga e facil maniera biancheggiavano certi cori di garzoni e donzelle coi loro candidi scialli quest’ultime, ed in bianche giacchette i primieri, affettando un travestimento che a loro pensiere gli assicurava l’incognito, ma che più su loro attirava gli sguardi della moltitudine.


Prezzo di copertina € 21,00
Benedetto Naselli: I misteri di Palermo. Romanzo storico siciliano. 
Nella versione originale pubblicata nel 1852. Copertina di Niccolò Pizzorno. 
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online.  Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (sconto 20%)

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