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martedì 13 febbraio 2018

Benedetto Naselli: I tre artisti. Tratto da: I misteri di Palermo


Scendendo sulla diritta del piano or ora descritto, succede una ben larga via che conduce a Toledo, ove esiste tuttora un magnatizio palazzo, dalle belle colonne, dalle ampie scale di marmo, e dalle spaziose sale, che fan bella mostra del gusto e della squisitezza dei nostri tempi andati, della jattante possanza e dello splendido lussureggiare dei nostri antichi baroni. Soprastanno al frontone d’una delle molte entrate, le armi gentilizie della illustre famiglia a cui appartiene.
Al cominciare del presente secolo, di costa a tal palazzo, e propriamente in una viuzza che lo fiancheggiava, esistiva una casa di modesta apparenza a due piani ove si alloggiavano due famiglie cadute nell’infortunio e nelle meschinità, al pianterreno un giovane scultore colla madre, ed in soffitta due incogniti, due anonimi come direbbesi, due esseri misteriosi, due di quegli uomini infine, che escono la mattina per ritirarsi la sera, che non sono mai dimandati, che non si vedono, che sono la smania delle male lingue del vicinato, stizzantesi in tali occasioni a non poter mormorare ad occhi veggenti sul loro conto.
Il pianterreno del palazzo abitato dallo scultore, componevasi di una sola stanza. A destra dello entrare, un  focolare in pietra, e per una scaletta di legno si saliva ad un mez­zanino che ricevea la luce dalla stanza istessa. Ivi erano riposti due meschinissimi letti con pagliericci, l’uno per Genoveffa madre dello scul­tore, l’altro per se stesso. Un armadio di legno antico a piccoli cassoni verniciato in nero, un ta­voliere, poche sedie ed una poltrona, eran tutti i mobili. Al capezzale del letto della madre eravi appeso un crocifisso di avorio sur una croce di tartaruga guarnita in argento che apparteneva un tempo alla madre di Genoveffa, e questa lo avea sempre ritenuto come una santa tradizione, ricor­do dei suoi vecchi genitori, e santuario alle sue diuturne e serotine preghiere. Al di sotto poi nella stanza, due o tre panche di legno, rottami di marmo, modelli in gesso, scalpelli e scalpellini, ed una statua non finita rappresentante Ercole, l’eroe di Tebe della Beozia. Era questo lo studio di Luigi il nostro artista, il quale dopo aver lavorato molte ore della notte, ora si sdra­iava sur un seggiolone a bracciuoli a riposarsi contemplando, col contento di una prima inspirazione, l’opera del suo genio, che acquistava giorno per giorno forma e figura. Luigi non potea dirsi assai bello, ma la sua persona era molto seducente. La sua testa era, come direbbesi oggi, un bel tipo per una testa italiana. Avea larga la fronte, occhi cilestri, ma un po’ ingrottati e penetrantissimi, il suo naso era acquilino a cui sottostavano un bel paio di baffi neri. La capellatura pur nera e liscia, e la carnagione bruna. La sua figura alla perfine attiravasi gli sguardi degli uomini sensibili, perchè dal viso trasparivagli l’angosce ed i tormenti che tutto lo martoriavano. Il cuore di Luigi era stato educato alla sventura, sin dalla infanzia respirò l’alito della miseria, bevve al calice delle amarezze, e i suoi primi palpiti non furono che per la memoria di suo padre, per la madre e per l’arte. Eran questi i sentimenti che infioravano la vita di Luigi, ed avrebbe tutto arrischiato, per sostenere la ca­dente genitrice e procacciarsi il nome di valente nell’arte sua.

Eppure egli ora povero... ma povero assai.
Nella casa, al di cui pianterreno abitava il nostro Luigi, al primo piano lavo­rava un giovine pittore, ed al secondo la vedova con la famiglia di un impiegato morto da pa­recchi anni. In soffitta, come il sapete, nascon­devansi Odeardo e Maria unitamente al vecchio Tom.
Il pittore chiamavasi Guglielmo. Era un uomo a trentacinque in su i trentasei anni. Magro e snello, con una bella capigliatura castagna e due occhi nerissimi che luccicavano come stelle. La di lui famigliuola componevasi di una buona moglie, vero tipo delle oneste madri di famiglia, e tre bambinelli, dei quali il più grande contava allora sei anni, e l’ultimo poppava. La casa non avea che due sole stanzette e una cucina. Nella sala serventegli di studio, eravi un cavalletto con suvvi una tela, cinque o sei quadri in olio attaccati alle murate, altrettante sedie e poi modelli di gesso, e braccia, e teste, e gambe, ed intiere figure.
Il buon Guglielmo era figlio dell’arte. Da suo padre avea appreso a maneggiar la matita e ad impastare i colori; ma il suo genio l’avea trasportato oltre, ed in poco tempo era tanto il foco che all’arte sospingealo che superò se stesso, suo padre, i maestri, ed era addivenuto artista di gran nome. Dieci o dodici lavori storici da lui concepiti, gli aveano fruttato un nome ed una onorata sussistenza; ma comechè egli era lungi dal correre l’aringo dell’intrigo e della impostura avea visto diminuirsi mano mano il credito e la fortuna. Bisognò adunque far economia sulle proprie spese. Tolse dapprima il bell’appartamento che occupava lungo la strada Macqueda, quindi lo studio a Toledo e si ridusse con la moglie ed i figli ad abitar la casa da noi descritta, procacciandosi uno scarso sostentamento col dipingere ad olio usi, costumi e paesi della Sicilia, che vendeva a qualche amatore di belle arti, o a qualche forastiere. Il suo vicino abitava al secondo piano, e con un fascio di carte sotto al braccio e tutto lasso saliva su per la sua abitazione.

Accompagniamolo. Il signor Alfredo era un giovinotto a circa vent’anni, figlio di un onesto impiegato, che avea spesi molti sudori nella vita al servizio della corte, e vivente avea procacciato una discreta educazione alla famiglia della quale il maschio era il maggiore. Quando poi se ne morì non lasciò ai figli che la propria memoria onorata e compianta, ed alla vedova una scarsa pensione di tre o quattro tarì al giorno. Condizione dolorosa di tutte le infelici famiglie di chi, logorantesi la salute dieci o dodici ore al giorno pel disimpegno del proprio dovere, non lascia in morte alla famiglia che lo stento e le privazioni!
Con quello scarso assegno la infelice vedova dovè provvedere ai bisogni giornalieri per sé e per i suoi quattro figli, e più per la di costoro educazione. Alfredo sin da ragazzo manifestò una gran tendenza per     la musica, e la madre a volerne coltivare il genio gli accaparrò un pedante pei primi rudimenti, e fece tutto il possibile per fornirlo di un clavicembalo in legno che allora chiamavasi a spinetta.
A diciotto, anni il giovinetto era già maestro. Avea fatto eseguire cinque o sei pezzi di musica, bellissime inspirazioni del suo genio, e regalato quindi da un poeta di un mediocre libretto, lo avea musicato maestrevolmente, e sentitamente. Egli poveretto, lo avea fatto sentire per tutte le case de’ dilettanti, lo avea fatto esaminare da tutti i professori. Nelle prime avea trovato elogi, sen­sazioni, promesse e nulla più, nei secondi sog­ghigni, diffidenze e mal’umori.
Si era incoraggiato dalle belle parole di qualche anima sensibile, che sentiva i palpiti pel bello, pel soave e pel melodioso di che era zeppa la di lui musica, e più volte tentò pubblicarla su pel teatro, ma non gli era per anco riuscito.
 
 
 
Benedetto Naselli: I misteri di Palermo. Nella versione originale pubblicata nel 1852.
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