Scendendo sulla diritta del piano or ora descritto, succede una ben larga via che conduce a Toledo, ove esiste tuttora un magnatizio palazzo, dalle belle colonne, dalle ampie scale di marmo, e dalle spaziose sale, che fan bella mostra del gusto e della squisitezza dei nostri tempi andati, della jattante possanza e dello splendido lussureggiare dei nostri antichi baroni. Soprastanno al frontone d’una delle molte entrate, le armi gentilizie della illustre famiglia a cui appartiene.
Al cominciare del
presente secolo, di costa a tal palazzo, e propriamente in una viuzza che lo
fiancheggiava, esistiva una casa di modesta apparenza a due piani ove si
alloggiavano due famiglie cadute nell’infortunio e nelle meschinità, al
pianterreno un giovane scultore colla madre, ed in soffitta due incogniti, due
anonimi come direbbesi, due esseri misteriosi, due di quegli uomini infine, che
escono la mattina per ritirarsi la sera, che non sono mai dimandati, che non si
vedono, che sono la smania delle male lingue del vicinato, stizzantesi in tali
occasioni a non poter mormorare ad occhi veggenti sul loro conto.
Il pianterreno del palazzo abitato dallo scultore, componevasi di una sola
stanza. A destra dello entrare, un focolare in pietra, e per una scaletta di
legno si saliva ad un mezzanino che ricevea la luce dalla stanza istessa. Ivi
erano riposti due meschinissimi letti con pagliericci, l’uno per Genoveffa madre dello scultore, l’altro per se
stesso. Un armadio di legno antico a piccoli cassoni verniciato in nero, un tavoliere,
poche sedie ed una poltrona, eran tutti i mobili. Al capezzale del letto della
madre eravi appeso un crocifisso di avorio
sur una croce di tartaruga guarnita in argento che apparteneva un tempo alla
madre di Genoveffa, e questa lo avea sempre ritenuto come una santa tradizione,
ricordo dei suoi vecchi genitori, e santuario alle sue diuturne e serotine
preghiere. Al di sotto poi nella stanza, due o tre
panche di legno, rottami di marmo, modelli in gesso, scalpelli e scalpellini,
ed una statua non finita rappresentante Ercole, l’eroe di Tebe della Beozia.
Era questo lo studio di Luigi il nostro artista, il quale dopo aver lavorato
molte ore della notte, ora si sdraiava sur un seggiolone a bracciuoli a riposarsi
contemplando, col contento di una prima inspirazione, l’opera del suo genio, che acquistava giorno per
giorno forma e figura. Luigi non potea dirsi assai
bello, ma la sua persona era molto seducente.
La sua testa era, come direbbesi oggi, un bel tipo per una testa italiana. Avea
larga la fronte, occhi cilestri, ma un po’ ingrottati e penetrantissimi, il suo
naso era acquilino a cui sottostavano un bel paio di baffi neri. La capellatura pur nera e liscia, e la
carnagione bruna. La sua figura alla perfine attiravasi gli sguardi degli uomini sensibili, perchè dal viso trasparivagli l’angosce
ed i tormenti che tutto lo martoriavano. Il cuore di Luigi era stato educato alla
sventura, sin dalla infanzia respirò l’alito della miseria, bevve al calice delle amarezze, e i suoi primi palpiti non furono che per
la memoria di suo padre, per la madre e per l’arte. Eran questi i sentimenti
che infioravano la vita di Luigi, ed avrebbe tutto arrischiato, per sostenere
la cadente genitrice e procacciarsi il nome di valente nell’arte sua.
Eppure egli ora povero... ma povero assai.
Nella casa, al di cui pianterreno abitava il nostro Luigi, al primo piano lavorava un giovine
pittore, ed al secondo la vedova con la famiglia di un impiegato morto da parecchi
anni. In soffitta, come il sapete, nascondevansi Odeardo e Maria unitamente al
vecchio Tom.
Il pittore chiamavasi Guglielmo. Era un uomo a
trentacinque in su i trentasei anni. Magro e snello, con una bella capigliatura
castagna e due occhi nerissimi che luccicavano come stelle. La di lui
famigliuola componevasi di una buona moglie, vero tipo delle oneste madri di
famiglia, e tre bambinelli, dei quali il più grande contava allora sei anni, e
l’ultimo poppava. La casa non avea che due sole stanzette e una cucina. Nella
sala serventegli di studio, eravi un cavalletto con suvvi una tela, cinque o
sei quadri in olio attaccati alle murate, altrettante sedie e poi modelli di
gesso, e braccia, e teste, e gambe, ed intiere figure.
Il buon Guglielmo era figlio dell’arte. Da suo padre
avea appreso a maneggiar la matita e ad impastare i colori; ma il suo genio
l’avea trasportato oltre, ed in poco tempo era tanto il foco che all’arte
sospingealo che superò se stesso, suo padre, i maestri, ed era addivenuto
artista di gran nome. Dieci o dodici lavori storici da lui concepiti, gli
aveano fruttato un nome ed una onorata sussistenza; ma comechè egli era lungi
dal correre l’aringo dell’intrigo e della impostura avea visto diminuirsi mano
mano il credito e la fortuna. Bisognò adunque far economia sulle proprie spese.
Tolse dapprima il bell’appartamento che occupava lungo la strada Macqueda,
quindi lo studio a Toledo e si ridusse con la moglie ed i figli ad abitar la
casa da noi descritta, procacciandosi uno scarso sostentamento col dipingere ad
olio usi, costumi e paesi della Sicilia, che vendeva a qualche amatore di belle
arti, o a qualche forastiere. Il suo vicino abitava al secondo piano, e con un fascio di carte sotto al braccio e
tutto lasso saliva su per la sua abitazione.
Accompagniamolo. Il
signor Alfredo era un giovinotto a circa vent’anni, figlio di un onesto
impiegato, che avea spesi molti sudori nella vita al servizio della corte, e
vivente avea procacciato una discreta educazione alla famiglia della quale il
maschio era il maggiore. Quando poi se ne morì non lasciò ai figli che la
propria memoria onorata e compianta, ed alla vedova una scarsa pensione di tre
o quattro tarì al giorno. Condizione dolorosa di tutte le infelici famiglie di
chi, logorantesi la salute dieci o dodici ore al giorno pel disimpegno del
proprio dovere, non lascia in morte alla famiglia che lo stento e le privazioni!
Con
quello scarso assegno la infelice vedova dovè provvedere ai bisogni giornalieri
per sé e per i suoi quattro figli, e più per la di costoro educazione. Alfredo
sin da ragazzo manifestò una gran tendenza per la
musica, e la madre a volerne coltivare il genio gli accaparrò un pedante pei
primi rudimenti, e fece tutto il possibile per fornirlo di un clavicembalo in
legno che allora chiamavasi a spinetta.
A diciotto, anni il giovinetto era già
maestro. Avea fatto eseguire cinque o sei pezzi di musica, bellissime
inspirazioni del suo genio, e regalato quindi da un poeta di un mediocre
libretto, lo avea musicato maestrevolmente, e sentitamente. Egli poveretto, lo
avea fatto sentire per tutte le case de’ dilettanti, lo avea fatto esaminare da
tutti i professori. Nelle prime avea trovato elogi, sensazioni, promesse e
nulla più, nei secondi sogghigni, diffidenze e mal’umori.
Si
era incoraggiato dalle belle parole di qualche anima sensibile, che sentiva i
palpiti pel bello, pel soave e pel
melodioso di che era zeppa la di lui musica, e più volte tentò pubblicarla su pel
teatro, ma non gli era per anco riuscito.
Benedetto Naselli: I misteri di Palermo. Nella versione originale pubblicata nel 1852.
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